The Project Gutenberg EBook of Napoli a occhio nudo, by Renato Fucini This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org Title: Napoli a occhio nudo Lettere ad un amico Author: Renato Fucini Release Date: August 16, 2013 [EBook #43486] Language: Italian Character set encoding: UTF-8 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK NAPOLI A OCCHIO NUDO *** Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) RENATO FUCINI (NERI TANFUCIO) NAPOLI A OCCHIO NUDO LETTERE AD UN AMICO. FIRENZE. SUCCESSORI LE MONNIER. 1878. Proprietà degli Editori. ALLA MEMORIA DI RAFFAELLO FORESI. LETTERA I. Dove si parla della città. Napoli, 5 maggio 1877. Eccomi a Napoli; eccomi finalmente in questa terra promessa ad incarnare il sogno dorato della mia vita. Non ti ho scritto subito, perchè la confusione del mio povero cervello, appena piovuto in questa enorme voragine, è stata tale da non permettermi di farlo. Ora però che ho ripreso fiato e che ho cominciato a riordinarmi le idee fino ad oggi sparpagliate e frullate in tondo come foglie secche dal vento, mi faccio una festa di mantenerti la promessa e di scriverti qualche cosa da questo paese. La sera stessa del mio arrivo, vidi il nostro caro Enrico che m'era venuto incontro alla stazione. Cascammo l'uno nelle braccia dell'altro come due feriti al core; ci abbracciammo, ci stringemmo come pazzi e dopo un breve, ma furioso assalto di domande che non aspettavan risposta, si montò di volo in una vispa carrozzella e subito, per non perder tempo, senza pensare a valige, a stanchezza, a nulla, una corsa attraverso alla immensa città. — Vetturino, a Mergellina! — e giù, a trotto serrato per Toledo, Chiaja e la Villa Reale, trasportato come in sogno fra la romba e il brulichìo vertiginoso d'una folla compatta che si apriva a stento al nostro passaggio e si richiudeva subito dietro alla carrozzella come una massa liquida, su la quale galleggiassero migliaia e migliaia di cappelli e di teste umane. Che brio, che vita, che baraonda, amico mio, che maraviglioso disordine era quello per il nuovo e piccolo arrivato! Mi parve a un tratto d'esser diventato invisibile, e mi sentii là dentro come un grano di miglio turbinato nei vortici d'una enorme pentola a bollore! Ma ero troppo stanco da potermela godere. Mi doleva il capo, mi frizzavano gli occhi ed avevo tanto bisogno di riposo, che nulla potei intendere nè gustare del troppo lauto banchetto così improvvisamente offerto a' miei sensi. Di questa prima corsa per le vie di Napoli ne ho un ricordo confuso come d'una cosa accadutami anni ed anni indietro. Ho negli orecchi il ronzìo di serenate che incontrammo lungo la riviera di Chiaja; mi pare di rammentarmi di fiammate in mezzo alla via, intorno alle quali ballavano strillando centinaia di ragazzi mezzi nudi, e dei lumi del gas che mi bucavano gli occhi, e della luna e delle stelle che brillavano cullandosi nel mare, e di Capri tuffata nei vapori del crepuscolo, e del Vesuvio! Dio, Dio, il Vesuvio! il suo pennacchio, i suoi bagliori sanguigni! Ma tutto confuso, tutto annebbiato come il ricordo d'un ballo fantastico veduto da fanciullo, o come le idee d'un nebuloso poeta del Nord che viaggia ispirato attraverso al regno dei sogni. Mi domandi di Roma. Ma che posso io dirti d'una città di quella natura, dopo avervi passato appena tre giorni, e dopo averla appena sfiorata al di fuori girando disperatamente dalla mattina alla sera per le sue strade intrigate? Roma è troppo grande per la mia piccolezza; non mi domandare di Roma. All'insetto che portatovi dal vento ha vagato per tre giorni su le cupole di Santa Sofia, chiederesti con lo stesso profitto le sue impressioni a proposito di Moschee. I suoi giganteschi ruderi che sbucano dal terreno come costole petrificate d'un enorme colosso male interrato o come avanzi d'un immane pasto di Ciclopi, mi hanno empito di sgomento e di terrore; la Roma dei Papi, dalla quale temevo trovarmi abbagliato, ha raccolto gli avanzi del suo fasto orientale e dorme ad occhi spalancati nel Vaticano; la Roma nuova, la Roma italiana l'ho appena avvertita in un ristretto spazio, dove, timida e chiacchierona, si striscia ai piedi del padron di casa e si arrabatta e brulica e sgambetta con la rettorica in una mano e la pila elettrica nell'altra, affaticandosi invano a galvanizzare un cadavere, che resta immobile sotto i suoi sforzi impotenti. Che posso io dirti di Roma? Dio assista i galvanizzatori e, nella sua immensa misericordia, non confonda le loro favelle! Ed ora parliamo di Napoli. Io non conosco i paesi dell'Oriente, nè conosco la Spagna altro che dalle descrizioni dei viaggiatori, dai libri letti, dai dipinti e dalle fotografie; ma se questo può servire, come io credo, a dare una idea abbastanza esatta di quelle regioni, l'aspetto della città di Napoli mi sembra tale, fuorchè in otto o dieci delle principali vie, da porre addirittura il visitatore italiano nella illusione di trovarsi mille chilometri lontano dalla sua patria, balestrato per incantesimo su qualche porto della Valenza o della Catalogna. Vie strette, fiancheggiate da case generalmente altissime con facciate sopraccariche di balconi e che vanno a terminare, senza aggetto di gronda, in una linea tagliente e spezzata sul fondo del cielo; profusione in ogni parte di ornamenti barocchi e di vivaci colori malamente accozzati fra loro; tipi e modi degli abitanti; clima, nomi di alcune strade e persino molti vocaboli passati intatti nel loro dialetto dalla lingua spagnola, e tante e tante altre particolarità che ora mi sfuggono, tutto ricorda quel paese, da ogni lato ti corrono all'occhio o all'udito schiettissime tracce della lunga occupazione spagnola. Domandai ad un catalano di mia conoscenza, e glie lo domandai da vero: — Sembra spagnolo anche a voi l'aspetto di questa città? — Mi rispose: — Bendate un mio compatriotta, toglietegli la benda dopo averlo condotto in qualcuno dei _vichi_ o delle _rue_ di questo paese, e griderà: sono a casa mia. — Più sopra ho rammentato anche l'Oriente nè credo d'essermi ingannato. I fabbricati, il sudiciume e la ristrettezza delle vie; il genere di vegetazione che si vede nei giardini della città e nei dintorni; l'abitudine che questa plebe ha di vivere sulla strada; la miseria cenciosa e pigolante, in mezzo alla quale ci troviamo continuamente, tante cose insomma ti mettono in questa illusione che spesso potrai sognare di trovarti ad Alessandria od al Cairo in mezzo ai loro Fellah, ai loro buricchi e buriccai, con la sola differenza della lingua, che là saresti importunato per il _bascisch_ e quaggiù non ti lascian pelle indosso per il soldo. Il movimento della folla poi in alcuni punti della città e in certe date ore ricorda addirittura, se non che in proporzioni minori per la varietà dei costumi, quella moltitudine che intricandosi e aggomitolandosi brulica, si sviluppa e turbinando passa sempre folta e compatta sul ponte della Sultana Validè, quale ce la descrive il De-Amicis nel suo _Costantinopoli_. Ma lasciando da parte i confronti, vieni con me, osserviamo Napoli quale è; percorriamo le sue strade nel modo che più ti piace: in carrozzella, in omnibus, in _tramway_, in curricolo, a piedi.... ingolfiamoci in questo laberinto, in questo formicaio umano; tuffiamoci in questa allegria contagiosa, in questa vitalità febbrile e lasciamoci trascinare nella vertigine di questa ridda, dove i sensi non bastano alla faticosa opra, verso la quale irresistibilmente si sentono attrarre e dove spesso rimangono sopraffatti e spossati sotto l'attrito continuo d'un eccitamento eccessivo. La prima impressione che si riceve entrando in Napoli, è quella d'una città in festa. Quel chiasso, quello strepito, quella turba di veicoli e di pedoni che si affollano per le vie, ti sembra, a prima vista, che debba essere cosa transitoria, un fatto fuori dell'ordinario, una sommossa, una dimostrazione o che so io. Volti gli occhi in aria: una miriade di finestre ed altrettanti balconi e tende che sventolano al sole e fronde e fiori e persone fra quelli affacciate, ti confermano nella illusione. Il frastuono, le grida, gli scoppi di frusta ti assordano; la luce ti abbaglia; il tuo cervello comincia a provare i sintomi della vertigine, i tuoi polmoni si allargano; ti senti portato a prender parte alla entusiastica dimostrazione, ad applaudire, a gridare — evviva! — ma a chi? La scena che si svolge davanti ai tuoi occhi non ha nulla di eccezionale, nulla di straordinario; la calma è perfetta, nessuna forte passione politica agita questo popolo, ognuno va per le sue faccende, parla de' suoi affari; è una giornata come tutte le altre, è la vita di Napoli nella sua perfetta normalità e nulla più. Strano paese è questo! Quale impasto bizzarro di bellissimo e di orrendo, di eccellente e di pessimo, di gradevole e di nauseante. L'effetto che l'animo riceve da un tale insieme è come se si chiudessero e si riaprissero continuamente gli occhi: tenebre e luce, luce e tenebre. Accanto alla elegantissima dama, un gruppo di miserabili coperti di luridi cenci; immondizie e sudiciume fra i piedi, su in alto un cielo di smeraldo; da un lato una fresca veduta della marina, dall'altro pallide facce di miserabili che si affollano su l'apertura della loro tenebrosa spelonca; là in fondo, un gruppo di azzimati _dandy_ fa cerchio intorno al cestello odoroso della fioraia, accanto uno sciame di _guaglioni_ in camicia si svoltola tra le immondizie; qui un'onda profumata dal fiore d'arancio t'inebria, due passi più avanti la padella del friggitore ti strazia l'olfatto; la mesta canzone della comarella, che dolcissima scende dal balcone fiorito t'inebria, il raglio potente d'un somaro ti fracassa gli orecchi. E così potrei seguitare all'infinito. La straordinaria ed abbagliante varietà di tutto quello che dà nell'occhio a chi è nuovo di questo paese è tale da far credere che tutti si siano dati le intese, per non fare la stessa cosa nella stessa maniera. Lo spirito di una indipendenza primitiva regna assoluto; ognuno fa quello che crede e che più gli accomoda senza curarsi se sarà ridicolo o se arrecherà ad altri molestia. Le guardie municipali sono impotenti o quasi in tanta baraonda. Il fabbro ferraio porta la sua fucina in mezzo della via ed altrettanto fanno tutti gli altri artigiani; gl'inquilini dei _bassi_ o piani terreni, scacciati dalla oscurità o dalla malaria delle loro tane, si scaricano su la via coi loro mobili, coi loro cani, col gatto, col _ciuccio_, coi polli, con la pecora, e lì stanno a chiacchierare, a grattarsi, a lavorare, a dormire, a mangiare, a digerire, a..., e così dal fare del giorno al calare della notte la intera città assume l'aspetto d'una immensa bottega di rigattiere. In alcune vie il cielo è quasi nascosto da migliaja di panni stesi ad asciugare e ventilarsi su corde tirate da una parte all'altra della strada, che sgocciolano e brillano schioccando al vento come se anch'essi godessero di vedersi finalmente puliti davanti alla luce del sole. In altre vie la circolazione è qualche volta preclusa da ogni sorta d'ingombri, eppure a forza di lanci, di zig-zag, si passa, si tira avanti e si ride, e nessuno brontola e nessuno si lamenta, perchè nessuno è rimproverato nè ascolta lamenti se fa altrettanto dal canto suo. Ma quanto è bello, amico mio, quanto è seducente per chi ha una dramma d'artista nell'anima, l'effetto pittoresco di questo spettacoloso disordine! Specialmente per colui che vi si trova framezzo, arrivando dalle altre provincie d'Italia, dove gli è necessario un permesso bollato anche per poter fare ciò che legalmente gli è stato imposto, e dove mille elaborati regolamenti ti vessano, ti tormentano e t'impacciano più di tutti gl'ingombri del più affollato vico di Napoli, l'effetto è tanto grande che spesso ti senti sfiorare le labbra da un sorriso di maliziosa compiacenza, quando arrivi ad accorgerti che in fine dei conti tutti gli estremi si toccano. Per carità non dire a nessuno di questa eresia, se no m'impalano. Ed anche tu siimi indulgente e compatisci questo povero diavolo che diventa barbaro provvisoriamente, per eccessivo amore a un ideale d'incivilimento, il quale forse non ha altro difetto che d'essere un po' troppo a modo suo. Pur troppo verrà anche per questi aridi appunti l'ora delle dolenti note, e mi toccherà chiudere gli occhi spensierati dell'artista, quando mi accadrà d'ingolfarmi nei reconditi falansteri dell'abbrutimento e della miseria; ma ora lasciami caracollare a modo mio, lasciami respirare a larghi polmoni la voluttà di quest'aura marina che mi accarezza con le sue ali di velluto, lasciami vivere e godere, che io mi sbizzarisca fino alla sazietà, se non vuoi che in cambio di una gioja fanciullesca, ma schietta, ti ponga davanti la falsificazione di una serietà che ho perduta tra la folla e che inutilmente andrei ora a ricercare. Chi prova dispetto o non si eccita piacevolmente dinanzi a un tale spettacolo, invochi e presto i soccorsi dell'arte salutare, perchè il suo sangue è guasto. L'incontrare una faccia mesta in questa agitata marea di carne umana, è raro assai. Eppure le anime afflitte certo non mancheranno in tanta moltitudine di figli d'Adamo; ma il riflesso della gajezza che predomina su tale scena ti abbarbaglia per modo che le particolarità sfuggono a' tuoi occhi o, se le noti, l'impressione dolorosa che potresti riceverne, è così momentanea che le corde gentili dell'animo tuo non possono mantenere una sensibile vibrazione. È più facile sentirsi provocare una risata omerica dal frate che ti chiede il soldo, offrendoti in cambio i numeri per il lotto, che provare intiera la pietà di una madre, che pallida fino su le labbra ti stende la mano per la sua creatura che ha fame. — L'osservatore crede assistere ad una splendida pantomima; sfiora con l'occhio la superficie di tutto, e in ogni pezzo della maravigliosa macchina, in ogni comparsa che ride o piange sotto i suoi occhi, non vede altro che la fantasia del coreografo, e de' corifei che gli ballano davanti, altro non scorge che le vesti e la faccia rischiarata dai lumi della ribalta. — Per colui che voglia presto acquistarne una idea generale e vedersi sfilare davanti tutti i personaggi della commedia di Napoli, la via di Toledo è, fra tutte le strade della città, quella che più si presta a tale scopo. La linea retta che questa mantiene per un lungo tratto fino alle sue estremità, dove sensibilmente s'incurva; il leggiero declivio del suo piano rotabile, per mezzo del quale, come dalla platea di un teatro, si può da qualunque punto dominarne il movimento al di sopra ed al di sotto di noi senza trovarci affogati tra la folla, si prestano mirabilmente al nostro desiderio, tanto più che da ogni quartiere, da ogni rione lontano si scarica e passa tumultuosamente confuso in questa arteria massima lo svariato popolo della città, che contiene entro la sua cerchia tutte sfumature della scala sociale, dal lezzo dell'_Imbrecciata_ ai profumi del _Pizzo Falcone_. Percorrendo questa bellissima via e voltandosi ora a destra ed ora a sinistra ad osservare le numerose vie secondarie che vi fanno capo, notabili specialmente in quell'intersecato gruppo compreso tra le strade _Trinità degli Spagnoli_ e _Montecalvario_, le quali dopo i _Gradoni di Chiaja_, _Rua Catalana_, _Borgo Loreto_ ed altre minori sono per me le più originali di Napoli, tu puoi anche formarti una esatta idea del materiale della città, poichè da questo centro di circolazione che resta incassato profondamente nella massa enorme dei fabbricati, di rado l'occhio e l'attenzione restano distratti dalla vista dei circostanti colli e della marina. Nessun paese al mondo, io credo, conserva al pari di Napoli così scarsa e non pregevole quantità di tracce monumentali delle dinastie che vi si sono succedute nel dominio. La ragione di questo fatto credo non possa ripetersi altro che dalla breve durata delle singole occupazioni, e, più che da questo, dalle lotte continue che gl'invasori hanno dovuto sostenere fra loro per contrastarsi accanitamente questa agognata regione, tantochè le arti della guerra mai non hanno dato una tregua abbastanza lunga, da permettere l'incremento di quelle della pace, che ogni invasore avrebbe potuto, buone o cattive, trapiantarvi dal proprio paese. Dei Bisantini e dei Normanni qualche rara ed informe traccia, fuor che nei dintorni; degli Svevi e degli Angioini qualche chiesa e le loro solide reggie, meglio paragonabili a robusti fortilizi che a principesche dimore; degli Spagnoli molte chiese goffissime e pochi obelischi oscenamente barocchi. Una sola cosa di buono operarono costoro e fu di demolizione, quando aprirono la via Toledo. I soli Borboni avrebbero potuto decorare la città di un monumento importante e forse ne avranno avuta l'intenzione, ma non vi sono riusciti. Il loro capolavoro che sarebbe il San Francesco di Paola, malgrado di tutte le pretensioni che ha di somigliare il Pantheon nel suo corpo centrale e di ricordare molto felicemente il porticato del San Pietro nelle ali, non giunge ad altro che a rammentarti, con la scialba sua faccia e con la fredda monotonia delle sue linee, il goffo bigottismo di colui che spaventato all'idea della morte ne decretò la costruzione votiva fra la bevuta d'una pozione diuretica e il _Memento homo_ del prete che gli risciacquava l'anima più citrulla che sporca. Ho rammentato a preferenza questo edifizio come quello che scrocca una fama troppo superiore al merito, e perchè più d'ogni altro dà nell'occhio per l'aperta posizione, nella quale si trova e che tanto contribuirebbe ad arricchirne i pregi se qualcuno ne avesse. Non parlo dei Palazzi reali che a giustificare il loro titolo altro non hanno che la mole, poichè tanto nell'esterno quanto nell'interno non sono che case comuni in proporzioni colossali. Ma neanche ai Borboni concessero i fati e l'invidia dei rivali lunghi periodi al godimento tranquillo della preda. Fughe vergognose, guerre fratricide e sanguinosi ritorni si alternarono a brevi intervalli sotto il loro infausto dominio. Ed intanto che faceva il povero orso dalle cinquecento mila teste tartassato in mezzo alla barbara tempesta? Si esauriva applaudendo a colui che baldanzoso arrivava; riceveva i colpi di colui che si tratteneva; fischiava dietro a quello che rabbiosamente fuggiva, e così, o sotto la livrea o sotto le verghe del padrone, perduto ogni sentimento di estetica, le abitazioni private che fece sorgere, se si eccettuano i palazzi Maddaloni, Gravina e qualche altro minore, non furono che nude o mal frastagliate pareti all'esterno ed intricati laberinti internamente. Opere da castori o da termiti e nulla più. E fa veramente maraviglia il notare come l'Architettura sia restata tanto negletta quaggiù in questi ultimi tempi, mentre la Pittura e la Scultura napoletana sono già salite a tanta altezza, da non temer confronti in Europa. Fabbriche modernissime ne ho vedute qualcuna di fuori e non mi sono piaciute; di dentro non ne ho viste, ma mi assicurano che oggi si costruisce assai bene. Tanto meglio per il decoro dei costruttori napoletani e per le venerate ombre dei Palladio, degli Scamozzi, degli Ammannati, dei Brunelleschi e della lunga schiera di grandi che tanto videro trascurati in questo paese i loro splendidi esempii! — Dopo le ragioni sociali di tanta povertà architettonica, altra più potente ed efficace la troverai passeggiando in un giorno sereno lungo le magiche rive del Golfo, quando ti sentirai forzato ad esclamare con l'animo commosso: «E a che scopo lottare coi nostri piccoli cervelli mortali contro la più bella opera della natura?» Immaginati la cupola di Brunellesco all'ombra del Vesuvio e pensa. Mentre, ieri sera, mi perdevo dietro a tali fantasticherie, osservando dal parapetto della _Via del Gigante_ la bruna mole del vulcano che tranquillo mandava al cielo la sua bianca nubeola di fumo, sentii dietro alle mie spalle un rumore nuovo come di molti e forti e lunghi sospiri. L'illusione mi fece credere ad un tratto fossero le ombre dei grandi evocate poco fa dal mio pensiero e mi voltai trepidante per salutarle.... Era una mandra di dodici vacche in carne e ossa, sciolte e guidate da un solo guardiano, che tranquillamente scendevano a Santa Lucia, mescolate alla folla dei _landaux_ principeschi, che scintillanti di borchie e di stemmi argentini movevano maestosamente verso la riviera di Chiaja. Quella apparizione improvvisa mi ricondusse bruscamente alla realtà, ed avendo gettato di nuovo lo sguardo sulla svariata moltitudine, rimasi qualche tempo ad osservarla ed entrando poi in una carrozzella, mi allontanai per diporto. Queste carrozzelle, quasi tutte incrostate profusamente di piastre d'ottone, sono comode, abbastanza eleganti e tirate da cavalli generalmente piccoli, ma di aspetto robusto; corrono regolatamente, ma assai celeri sotto le redini dei più esperti guidatori d'Europa dopo quelli inglesi. Il cavallo più selvaggio diventa un agnello nelle loro mani, il che deve anche attribuirsi all'esser tenute queste focose bestiole, invece che sul morso, sopra una forte seghetta munita lateralmente di due lunghe aste di metallo che formano due potenti bracci di leva, per mezzo dei quali ogni cavallo è trattato indistintamente come nelle altre provincie d'Italia si trattano per eccezione i più indomiti. Ma in ogni modo i cocchieri sono eccellenti. Con queste carrozzelle corrono, si insinuano in ogni più angusto passaggio e strisciano e s'incrociano continuamente in ogni verso. Ora si ficcano a trotto serrato giù per le più ripide chine ed ora si arrampicano come tarantole su per montate fortissime, e sempre vispi e sempre allegri, animando i loro ronzini con un diluvio di _Iaah! Iaah!_ E mai uno scontro, mai un urto, mai un'arrotatura fra loro, in mezzo alla baraonda continua di altri legni, di pedoni, di cavallerizzi, di mandre di pecore, di capre e di somarelli carichi d'ogni ben di Dio che sgambettano, ragliano, sculettano e fanno tante altre cose che è un vero prodigio il sentire che noi pestiamo tanta roba senza esser mai pestati da loro. Spesso calando per una rapida scesa accade di sentire che il cavallo non cammina più, ma patina andandosene giù a rotta di collo di sdrucciolone in sdrucciolone.... — Ci siamo! — dici subito fra te — San Venanzio miracolosissimo, eccomi nelle vostre braccia, assistetemi voi.... Ehi! vetturino.... ma che lavoro è questo? vetturino! — Il vetturino ti guarda e non risponde. — Bà.... bada! bada a quella signora, a quel ciuco, a quel ragazzo, a quel ragazzo!... — Chiudi gli occhi per non vedere un eccidio e ti volti in dietro, ma in quel momento senti rallentare la corsa, il cavallo ha smesso di patinare, cammina regolarmente e siamo in fondo, aaah! — Non hai anche finito il sospiro di consolazione che incomincia una salita del trentacinque o quaranta per cento. Il cavallo s'inerpica meglio d'una capra, si divincola, si ripiega su se stesso, dà falcate e scatta com'un ranocchio, ma il suo piede non attacca sulla lava lustra dall'incessante attrito.... — Cocchiere, cotesto cavallo non ce la fa fino in cima. Vuoi tornare indietro, devo scendere? — Cavallo napoletano, signorino, non dubitate di nulla, cavallo napoletano — ei ti risponde, e a forza di tirate di briglia, di _iaaah!_, e di pizzicotti sotto la pancia, lo rallegra, lo tien ritto prodigiosamente e ti trovi arrivato in cima a certe pettate, dove se i cavalli avessero un po' di religione dovrebbero inginocchiarsi e nitrire un _Teddeum_ a Sant'Antonio miracoloso. San Gennaro e Sant'Antonio devono essere in eccellenti relazioni fra loro. E da questo attrito, da questa enorme agglomerazione di popolo e da qualche cos'altro, resulta tutto quel lordume che ingombra le vie e che fa di Napoli una delle città più sudice d'Europa. Mi è stato detto da qualcuno che da dieci anni in poi è tanto rimpulizzita da non riconoscersi più. Me ne rallegro tanto tanto e non metto in dubbio quanto mi viene assicurato, ma confesso che la mia fantasia, s'arrabatti pur quanto vuole, non arriva ad immaginarsi un sudiciume più sudicio del sudiciume. — Se un cacciatore mi avesse detto che i corvi, dieci anni fa, eran molto più neri di quel che son ora, mi troverei nello stesso imbroglio. La monotonia non annoia per certo in questo paese. Ad ogni passo incontri qualche cosa di strano e di bizzarramente nuovo che attira la tua attenzione. Il sistema, per esempio, di utilizzare ogni quadrupede domestico come bestia da tiro, e l'originalità de' connubii che si vedono posti in atto con questi pazienti animali, somministra larghissimo campo al curioso osservatore. Certo non si troveranno i lupi e gli agnelli, i falchi e le colombe aggiogati allo stesso carro, ma un bove e un can mastino che gli faceva da trapelo io gli ho veduti da vero, come ho veduto un bufalo e un microscopico somaro tirare la stessa carretta. Ma questi casi non sono molto comuni. Comunissimi però sono quelli di altri accoppiamenti come: una vacca ed un mulo; un cavallo ed un somaro; due somari e un bove ed altri simili, dove questi filosofi diseredati se ne vanno d'amore e d'accordo, mugliando, nitrendo e ragliando senza rider mai, come se anch'essi la trovassero la cosa più naturale di questo mondo. — E nemmeno gli ovini sfuggono alla utilizzatrice poltroneria dell'_Homo sapiens_ di questi paraggi. Su per una delle gradinate che conducono a Sant'Elmo, vidi una capra bardata di tutto punto con sella all'inglese e briglie e staffe elegantissime che caracollava sotto un cavallerizzo settenne, e in una via del basso porto una pecora che trascinava un piccolo carretto carico d'ortaggio. — Questo parrebbe il _non plus ultra_ dell'originale, parrebbe che tutti dovessero fermarsi e sbellicarsi dalle risa davanti ad ognuna di queste apparizioni grottesche, ma nulla di tutto ciò. Ed è naturale, perchè se ad ogni originalità che ci capita sott'occhio ci dovessimo fermare, si farebbero forse venti passi in tutta la giornata in un paese, dove, fra le altre cose, possono vedersi esposti insieme alla vendita: acque ferruginose e fetz turchi; pane e reggiòle di maiolica; Gesù morti e olive indolcite; e poi miracoli bell'e fatti, eppoi ritratti senza testa e perfino botteghe di barbieri flebotomi, dove in pochi minuti e per pochi soldi ti levano il sangue, i calli, la barba, i capelli e la voglia di tornarvi, e chi sa quante altre belle cose che in tanta baraonda mi saranno sfuggite. Venite, correte, o pittori del passato, del presente e dell'avvenire; calate, calate a sfamarvi, o titani dell'arte, ai quali manca un soggetto; qui c'è pane per tutti i denti, perchè senza escire dalla città, anzi senza allontanarvi dal centro, troverete e motivi e soggetti da empir tele quante ne fabbrica l'Olanda. Anfore greche, pompejane ed etrusche; carriaggi andalusi; tipi di beduini e di ateniesi; costumi europei del Seicento come lettighe, portantine e rococò d'ogni genere; trasporti funebri spartani; _cocottes_ parigine; cafoni e mandre della Sila e via e via e via. — Calate, calate, scegliete, scegliete e se avete occhi, mani e pennelli, arruotateli, strusciateli, consumateli fino alle barbe, perchè ora è tempo. Fermiamoci un momento ad osservare i venditori ambulanti: ma chi può tener dietro a questa fantasmagoria? Il numero di tutti questi urloni che, dal levar del sole a tarda notte, girano continuamente colla loro merce sulla testa o guidando per la coda piccoli somarelli stracarichi d'ogni ben di Dio, è favoloso. E venditori d'ortaggio, e pescivendoli e ostricari, e maruzzari e acquafrescai, e venditori d'ananassi, e di castagne, e di carubbe; e limonai, e aranciai, e ciabattini ambulanti, e venditori di giornali, di numeri del lotto, di stampe, di libri, di chincaglierie, di mazze, di burattini.... ma chi è buono a contarli? E tutti urlano e nessuno si ferma e nessuno si cheta mai, mai, mai. Ogni dieci passi un versetto della loro piagnucolosa cantilena e via! e sopra ogni trivio una brevissima fermata, dove, guardando in aria e arroncigliando le labbra, berciano e gesticolano, finchè non vedono calare il panierino della loro cliente del settimo piano. Allora solamente si chetano, ma non per stare zitti, veh! Dio ne guardi! ma per contrattare la vendita a venticinque o trenta metri di distanza. È tale l'abuso che si fa di questo sistema, che assolutamente non mi avrebbe fatto maraviglia l'incontrare un chirurgo a tagliar gambe per la via o un sacerdote con l'altare ad armacollo dire la Messa correndo e il chierico e il popolo dietro per ascoltarla. O che non sarebbero intonate anche queste con tutto il resto? Io dico di sì. Il lustrascarpe urla invitandoti e fa tonfi battendo la spazzola su la cassetta; il vetturino passa schioccando e se non ha persone sul legno, non cessa mai di sibilare e gridare a destra e a sinistra: — _Scì, scì, scì, scì! a vulite, a vulite?_ — (la volete, la volete?) Facchini carichi come bestie; operai che portano o riportano lavoro, i quali gridano per farsi largo tra la folla; e se a tutto questo si aggiungano: campanacci che tintinnano al collo di capre e pecore in truppe numerose; e belati, e ragli, e nitriti, e muggiti, e organini che suonano correndo continuamente, e corni e cornette di omnibus e tramway, e sonagliere di carriaggi della campagna e strepiti di venditori di giornali coi loro incessanti: — _o Pì, o Pun_ — (il _Piccolo_, il _Pungolo_) e la romba continua di migliaja di veicoli; e tonfi e botte e schianti di magnani, falegnami, carrozzieri e centinaja di altri operai che lavorano su la via strillando e gesticolando come pinzati dalla tarantola, si capirà come le persone più tranquille siano costrette, se vogliono intendersi fra loro, ad urlare, e quelle accanto ad urlare più forte di loro, e quell'altre più che mai; e così tutta Napoli è costretta a strillare con un crescendo tale che qualche volta, arrivandomi alle orecchie intronate il suono di campane, le ho benedette e fissandomivi con l'attenzione, mi hanno servito di riposo e ne ho preso refrigerio e conforto. . . . . . . In un bollente vetro Gittato mi sarei per rinfrescarmi. Quante volte dal folto di questo pandemonio, allorchè udivo appena il cannone di Sant'Elmo scaricato a mezzogiorno negli orecchi di Napoli, ho mandato un pensiero e un sospiro alla languida signora dell'Adriatico, ai suoi vuoti palazzi ed al silenzio de' suoi canali che lascia intendere il fiotto dei remi d'una gondola lontana e il tubare de' colombi su le cuspidi delle sue torri affilate! — Bellissime ambedue queste regine del mare, ma quanto diversamente belle! — Su la laguna posa languidamente la bellissima e pallida matrona, stanca sotto il peso degli anni, povera in mezzo alle sue gemme, ma ricca d'orgoglio per antica nobiltà. Ai piedi del Vesuvio, la voluttuosa e procace Almea, balla in ciabatte la tarantella, e canta e suda povera di tutto, ma ricca di speranze, di giovinezza e di sangue. Quella si nutrisce di mestizia e di gloria; questa, di maccheroni e di luce. Quella coperta di laceri broccati, ma lindi; questa seminuda e lercia, dalle ciabatte sfondate alla folta chioma nerissima ed arruffata. LETTERA II. Dove si parla della popolazione. Napoli, 8 maggio 1877. S'io ti dovessi dipingere i colori del camaleonte o disegnarti le forme di Proteo, in verità mi sentirei meno imbrogliato che a darti una netta definizione di quello che mi è sembrato essere il carattere di questo popolo. È così instabile, così pieno di contradizioni; si presenta sotto tanti e così disparati aspetti dagli infiniti punti di vista da cui può essere osservato, che su le prime è impossibile raccapezzarsi. Ad un tratto ti sembreranno ingenue creature e ti sentirai portato ad amarle; non avrai anche finito di concepire questo sentimento che ti appariranno furfanti matricolati. Ora laboriosissimi per parerti dopo accidiosi; talvolta sobrii come Arabi del deserto, tal'altra intemperanti come parasiti; audaci e generosi in un'azione, egoisti e vigliacchi in un'altra. Passano dal riso al pianto, dalla gioja più schietta all'ira più forsennata, con la massima rapidità, per modo che in un momento li crederesti deboli donne o fanciulli, in un altro, uomini in tutto il vigore della parola; insomma, la loro indole non saprei in massima definirla altro che con la parola: _anguilliforme_, poichè ti guizza, ti scivola così rapidamente da ogni parte che quando credi d'averla afferrata, allora proprio è quando ti scapola e ti lascia con tanto di naso e con le mani in mano. Spieghiamoci subito. Sappi dunque che dicendoti tutto quello che ti dirò di questo popolo, intendo soltanto parlarti dell'ultima plebe. In un paese, dove i quattro quinti della popolazione sono rappresentati da questo ceto, è naturale che un viaggiatore, il quale, come me, non se ne proponga uno scopo di studio, non veda altro che quello. L'aristocrazia l'ho appena osservata a Chiaja nell'ora del passeggio, e non ne conosco altro che lo sfarzo vistoso degli abiti e degli equipaggi. Di quello che si chiama il medio ceto, ho avvicinato soltanto una ventina di rispettabili e care persone, delle quali non saprei dir mai tutto quel bene che si meritano, e non mi son curato d'altro e non sono andato più in là. La plebe sola, questa massa enorme di straccioni, in mezzo ai quali quasi si perdono e sembrano ospitalmente tollerati gli altri ceti, mi ha dato nell'occhio ed ho preso diletto ad osservarla, come ora mi divertirò a dirtene quello che me ne è sembrato, buttando da parte quella rancida lira che ogni rispettabile citrullo, capitando in questo paese, agguanta insatirito per cantare il vieto inno di moda alla Sirena, senza capire che è tempo di smetterla, perchè di Grazielle, di chitarre e di Sirene se n'è detto già tanto che ora basta. Di tutte le plebi, in mezzo alle quali mi son ritrovato girellando per l'Italia, quella di Napoli è senza dubbio la più originale e la più grottesca di tutte. Basta guardare in viso questa gente per capire che son furbi come gatti; serve dare un'occhiata alle loro membra per ammirarne la eleganza delle proporzioni e per ridere del modo, col quale le adoperano negli usi più comuni della vita. Allorchè parlano, la lingua è il membro che soffre minore attrito di tutti. Chiudono gli occhi, li riaprono e li battono come bertucce; sgualciscono le labbra; con le mani affettano l'aria in tutti i sensi; si scuotono, si torcono su la vita in modo che qualche volta la lingua si mette in riposo assoluto e conversano ed esprimono i più riposti sentimenti dell'animo con un gergo tacito che chiamerei _semaforico_, corrugando la fronte, stralunando gli occhi e lavorando di braccia, di mani e di dita come allievi perfetti del più accreditato istituto di sordomuti. Siamo a Santa Lucia davanti al banco di Salvadore Capezzuto _ostricaro fisico_. — «Avete vongole, compare?» Il compare alza la testa e chiude gli occhi. Dopo un momento, non avendo capito che il signor Salvadore vi ha risposto, ripetete la domanda correggendone la forma e: «Volevo un mezzo franco di vongole, ne avete?» Nuova alzata di testa e nuova chiusura di occhi del compare con una tirata di fiato significante che vuol dire: m'avete rot...... «Vongole, volevo un mezzo franco di vongole, vongoleee» alzando la voce. Ora poi il compare è pieno fino alla gola; v'ha preso per uno stupido e ve lo vuol dimostrare. Rialza la testa, richiude gli occhi e interrompendovi dignitosamente indispettito, vi grida con voce robusta: — _Non ne dengooo!_ — Ha ragione, povero signor Salvadore! E chi è quel piemontese di Firenze tanto imbecille da non capire che una alzata di testa e una chiusura d'occhi, in buon italiano vuol dire «non ne ho?» Che questo risparmio di fiato sia effetto d'indolenza? Non t'importerà di saperlo, ma se anche fosse questa la causa, mi somiglierebbe alla economia del prodigo, il quale risparmia ora un franco in una spesa utile, per darne via mille poi in cose superflue. Il loro vestiario non saprei dirti quale sia. Sparito il pretto tipo del Lazzaro, il quale aveva stabilito quasi un costume, nelle sue brachette fino al ginocchio, camicia aperta sul petto, maniche rimboccate e tradizionale _scazzetta_ in capo, quello de' suoi eredi non ha nulla di uniforme altro che negli strappi e nel sudiciume. Un grosso volume parlerebbe meno del loro abbrutimento, di quel che lo facciano i luridi cenci che questi atleti della miseria hanno il coraggio di portare addosso sorridendo. Una balla da carbone lacera in mano di cotesta gente, parlo sempre dell'infima plebe, con pochi colpi di forbice si trasforma in una comoda sottana per signora; con pochi stracci raccattati fra le immondizie della via e qualche metro di spago di diverse qualità, la madre di famiglia ha trovato stoffa e guarnizione per provvedere di un intero _tout-de-mème_ da ogni stagione il marito e i suoi _guaglioncelli_, che fino ad ora hanno avuto abiti un po' troppo di confidenza: o una sola camicia con poco davanti e meno di dietro, o un abito adamitico addirittura, tranne l'incomodo della foglia. Di questi vestiarii ho avuto occasione di notarne di tutti i generi. Vidi un bambino in Borgo Loreto, che se ne passeggiava allegramente in mezzo alla via, avendo addosso per unico vestito un panciotto da uomo tutto sbottonato che gli ciondolava fino ai calcagni; un altro aveva soltanto due mezze trombe di calzoni, che rette da spaghi gli coprivano le gambe dal ginocchio in giù: il resto della persona era nudo affatto. Altri ne ho veduti, non solo bambini, ma uomini e donne adulti, con abiti così laceri, formati da tante cinquantine di pezzi, retti da tanti fili, ciondolanti e spenerati da tante parti, da volerci un archeologo per capire approssimativamente a che tempo rimontino ed un matematico che risolva un problema di statica, per arrivare a comprendere come facciano a reggerseli addosso. Abbondano poi nelle giovinette i vestiarii alla _Belle Hélène_, voglio dire: una sottana sola aperta da cima a fondo su i fianchi da due strappi, dentro i quali l'occhio del curioso ha libero accesso in compagnia del _maestrale_ che apre le cortine e del Sole che compiacente illumina co' suoi raggi la scena. La dolcezza del clima favorisce la semplicità del vestiario e la perdita del pudore, per modo che io credo che la puntura del freddo potrebbe persuadere quelle giovinette a nascondere la loro nudità, ma il senso della vergogna mai. Quanto è portentosa la prolificità di questa gente, altrettanto sono facili i matrimonj. Il pensiero dell'avvenire degli sposi e dei figli non deve recare sgomento. Una tana, dove un lupo morirebbe asfittico, sarà la loro abitazione; una stoja e pochi stracci, il talamo; i ragnateli e un mucchio di paglia, la mobilia. Verranno poi i figli. Tanto meglio. I rigetti dei banchi d'ortolani e di pescivendoli, e le tasche dei passanti, dove la piccola destra troverà quasi sempre un oggetto qualunque da ghermire, mentre la sinistra si stenderà a chiedere il soldo dell'elemosina, provvederanno all'esistenza ed alla educazione loro. Che razza di genìa scaturisca da questo genere di palestra, tu puoi figurartelo senza torturarti molto il cervello. Eppure, anche con tutto questo, non riescono antipatici, nè sgarbati nè di rozze maniere; anzi, per la persona decentemente vestita e che non abbia con loro altro che relazioni superficiali, hanno modi gentili e sono addirittura simpatici. Sono vispi, pronti d'ingegno, spensierati e docili per natura; il turpiloquio e la bestemmia che tanto qualificano la plebe della nostra gentile Toscana, sono sconosciuti o quasi per loro. Qualche parola sconcia l'ho udita escire dalle loro bocche nel parossismo dell'ira, ma questa sconcezza non si accosta nemmeno da lontano alle oscenità che è capace vomitare un nostro vetturino, non solo nella rabbia, ma anche quando, ad alta voce perchè sia notato il suo spirito, scherza piacevolmente con un compagno. Scaltro e ladruncolo per eccellenza, il Lazzaro rubacchia indubitatamente quando gli si presenti facile l'occasione; ma dove ci sia da mettere a repentaglio la pelle, Pulcinella difficilmente si espone. Scamotta colla massima facilità l'orologio, il fazzoletto, il portasigari che fa capolino dalla tasca di petto e gli basta, ed è contento perchè, quando _s'è abbuscato_ qualche cosa con la sua destrezza, corre subito dal camorrista manutengolo che gli dà forse il quinto del suo _guadagno_, e con que' pochi vola al primo de' millemila botteghini di lotto; ne deposita lì una parte e con quell'altra celebra subito in qualche bettola la voluttuosa _scialata_. Ciarliero e millantatore implacabile, allorchè narra le sue gesta, racconta dieci ed ha compiuto uno. — Quando attacca litigio, però, prima di venire alle mani ci pensa. Strilla, impreca e gestisce con una mimica sublime, forse per far paura alla paura che ha. S'avanza se l'avversario si ritira, e si ritira subito se l'avversario s'avanza, ed ordinariamente i suoi litigi finiscono in grida, mentre i due litiganti si partono in direzione opposta, brontolando e ostentando di mordere il freno, ma in fondo contenti come pasque d'essersela cavata a quella maniera. Se vengono alle mani, però, son cattivi. Alla paura succede la reazione, ed a non scompartirli a tempo, facilmente verranno al sangue. Ferocemente gelosi, sfregiano in volto la donna del loro amore anche nel dubbio d'infedeltà. Un rasoio o una moneta arrotata sono gli strumenti, dei quali si servono, e di questo barbaro trattamento in generale le donne vanno liete e orgogliose, riguardandolo come una prova sicura dell'affetto dei loro amanti. Provvisto per natura di uno spirito d'indipendenza quasi selvaggio, muore di fame, muore sul lastrico delle vie o nel tanfo delle spelonche dove abita, ma non vuole intendere nè di spedali, nè di ricoveri, nè di benefizii che gl'impongano il minimo legame. Potrei citare, per prova di quanto asserisco, mille esempj che mi sono noti, ma per non perdermi in lungaggini, te ne dirò uno solo che mi sembra abbastanza eloquente. Una signora napoletana di mia relazione prese a soccorrere, facendogli settimanalmente la elemosina, un piccolo orfano di circa nove anni, il quale in mezzo a privazioni di ogni genere durante la giornata andava la sera a dormire in un forno se d'inverno, ed al sereno se d'estate. Questa signora seguitò per qualche tempo ad usargli in tal modo la sua carità; ma volendo da ultimo provvedere efficacemente ai bisogni di quella infelice creatura, ottenne per lui un posto, non mi ricordo più in quale asilo di beneficenza. Comunicò tutta lieta la buona notizia al suo protetto; gli parlò dei vantaggi e dei comodi che avrebbe trovati là dentro; gli dipinse a colori seducenti il suo avvenire e fissò il giorno nel quale lo avrebbe aspettato, per condurlo all'asilo. Il _guaglioncello_ dimostrò molta compiacenza nell'ascoltare tutte le oneste cose che gli furono dette; promise di non mancare all'appuntamento; si allontanò e non si è fatto più rivedere. Per questa medesima ragione, non è facile trovare fra loro persone di servizio. Ogni lavoro che gli obblighi lo scansano con ribrezzo, e non vi si adattano finchè il bisogno non gli abbia presi per la gola. Da questa tendenza della loro indole e dalla scarsità di opificj che potrebbero accogliere quelli che stretti dalla necessità vi si adatterebbero, resulta quella enorme moltitudine di semioziosi, che si dànno al lavoro avventizio nei luoghi di maggior movimento commerciale o al piccolo commercio ambulante per le vie della città, tormentando il prossimo in centomila maniere dalla mattina alla sera. Le loro occupazioni perciò sono intermittenti. Fra l'arrivo e la partenza dei convogli della strada ferrata e fra quello di battelli postali e navi mercantili nel porto, il lavoro cessa e negl'intervalli migliaia di persone restano disoccupate. Alla stanchezza per il lavoro fatto si aggiunge l'influenza del clima, e allora chi casca di qua e chi di là, e tutti si buttano allo sdraio sui muriccioli, sui marciapiedi, giù per gli scali, lungo la marina, sui carri, su le balle, su le casse, in qualunque luogo insomma dove ci sia da schiacciare un pisolino in pace, presentando così agli occhi dei passanti quel pittoresco, ma ributtante spettacolo che forse ha fatto alquanto esagerare l'idea che generalmente si ha della fiaccona e della indolenza di questo popolo. Son troppi quelli che abbisognano di lavoro, di fronte al movimento industriale e commerciale del paese, onde molti, lo ripeto, rimangono involontariamente inoperosi; ma quando offriamo loro da lavorare, è un'atroce calunnia, almeno ora, il dire che lo ricusino, perchè hanno mangiato. Sono stato troppe volte e sul molo e nei quartieri poveri, dove abbondano gli sdraiati e gli addormentati e troppe volte ho fatto la prova, destandoli e incaricandoli di qualche piccola commissione e qualche volta anche grossa e faticosa, e mai mi son sentito rispondere il famoso _aggio magnato_. Sorgono in piedi come se scattassero per una molla, si stropicciano gli occhi e per pochi centesimi si mettono alle fatiche più improbe, fanno due chilometri di strada correndo, e ritornano ringraziandovi, domandandovi se comandate altro, e scaricandovi addosso un diluvio di _eccellenze_ e di _don_, come se avessero da voi ricevuto il più grosso favore del mondo. Gli ho osservati nelle loro botteghe, passando per le vie, ed ho visto che lavorano; sono stato a visitare opificj e ne sono uscito con le mie convinzioni più radicate che mai. Non contento de' miei occhi, ne ho domandato ad alcuni direttori di stabilimenti manifatturieri, non napoletani e perciò non pregiudicati, e tutti mi hanno confermato nella mia scismatica opinione. Chi ha gambe venga e chi ha occhi veda, e dopo, se è onesto, dovrà convenire con me che lo sbadiglio lungo, sonoro, spasmodico, che quell'aspetto di prostrazione fisica, che quelle fisonomie assonnate e quasi sofferenti per la noia che s'incontrano specialmente nelle città di secondo ordine delle altre provincie, fra le quali non ultima la nostra leggiadra Toscanina, a Napoli non le troverà certamente; e giri, e cerchi, e osservi pure a suo piacere, assolutamente non le troverà. Il temperamento di questa gente è troppo nervoso, è troppo adusto da poter la linfa concorrere efficacemente insieme col clima a spossarli del tutto, per cui quando hanno da lavorare lavorano, e la loro opera è intelligente e produttiva al pari di quella di qualunque altra popolazione della penisola. — Mi sarò anche ingannato, ma non lo credo. _Date Caesari quod Caesaris est_, c'insegnò il Cianchi bon'anima maestro di rettorica, e giacchè sono entrato nello sdrucciolo delle eresie, mi scappa la voglia di seguitare e seguito. La seconda eresia la comincerò in forma di preghiera, pregandoti che, quando capiterai in questo paese benedetto dalla Provvidenza, in questa terra privilegiata del canto e del sentimento musicale, tu sfoderi gli orecchi, tu giri nei quartieri del popolo e tu ascolti. Principierai la tua peregrinazione immaginandoti di dover inciampare ad ogni svoltata di via in comitive di giovani spensierati, i quali se ne vadano rallegrando la poesia della notte coi loro canti, con le loro armonie di chitarre, di flauti e d'organini, come ti accadrà ad ogni passo in Toscana, e come ci accadeva incontrare tanto spesso a Milano, a Venezia e su i laghi, ma tutte le illusioni presto ti spariranno. Non ti parrà d'affacciarti a una vasca per sentir cantare i pesci, ma poco meno. Qualche truppa di suonatori e cantatori la incontrerai verso le locande o intorno ai caffè, dove vengono per danaro, anzi dove vengono in troppi e troppo spesso, ma chi canti per solo piacere di cantare le stupende e poetiche ariette che questi maestri di musica compongono a tavolino e non il popolo lungo la marina, come generalmente si crede, non lo incontrerai mai o molto, molto di rado. Una plebe che si diletta quasi esclusivamente del cembalo e della caccavella, due strumenti che dànno rumore monotono e non armonia, a mio parere, non può nè deve avere quello squisito sentimento musicale che da tutti, e senza rendersi conto del perchè, le si è voluto sempre attribuire. Un mezzo secolo addietro, quando l'Italia era da vero la terra del canto, la plebe di Napoli sarà stata per la musica tutto quello che si racconta; ma ora che questa terra del canto è diventata la terra degli urlacci, può darsi benissimo che anche quaggiù le cose vadano diversamente. Avrò preso un granchio anche questa volta? Speriamo di sì. Tutte le volte che ripenso a questa specie di disinganno procuratami da un pregiudizio che è universale, forse perchè i suonatori e cantatori napoletani (che non sono di Napoli) inondano i trivj della Terra, mi torna in mente la leggenda del cigno. Tutti i poeti hanno esaltato a cielo le dolcissime note e il canto melodioso di questo taciturno abitatore dei laghi, senza averne mai udita la voce. Bugiardi! Io l'ho sentita questa voce incantevole, l'ho udito davvero il canto di questo voluttuoso amico di Leda, e non ho saputo somigliarlo ad altro che allo strepito roco d'una canna secca stroncata bruscamente. Ma tutto questo non tolga nulla ai lati pregevoli di queste disgraziate ed allegre creature; anzi, dopo aver trovati martiri della fatica dove non credevo trovare che sbadiglianti bighelloni, voglio accennarti altre buone qualità che ho notate con piacere fra costoro, e gentili passioni portate qualche volta fino all'eccesso dalla loro natura meridionale. L'amore e gli affetti di famiglia li sentono con violenza; si soccorrono in caso di sventura e sono fra loro ospitali e caritatevoli fino al sacrifizio; hanno venerazione pei vecchi e li rispettano e li accarezzano affettuosamente; contentabili in modo che è raro udire un lamento dello stato di miseria più che bestiale, nella quale la maggior parte languiscono; non dediti all'ubriachezza; non punto turbolenti, almeno nei periodi di calma sociale, e questo lo prova il fatto che spesso l'Arsenale e l'officina di Pietrarsa hanno messo fuori cinquecento ed anche mille operai e la città non si è accorta minimamente di questo avvenimento; non facili alla rissa ed al coltello, sono dotati poi di molte altre qualità che non voglio rammentare, sebbene appaiano buone, perchè figlie troppo spontanee di quel fango morale, in cui sono tenute sommerse queste misere scimmie a due mani. Ma sotto quale enorme farragine di difetti restano soffocate le loro poche virtù! — Con la più feroce usura si strozzano fra loro. La passione per il giuoco in genere ed in specie per il Lotto giunge fino alla frenesia, e forse il desiderio di soddisfare a questa sfrenata libidine, se si volessero ricercare le cause di ciò che asserivo poco fa, è quello che gli agita, che gli accapiglia e li porta a lavorare rabbiosamente, per poi più rabbiosamente che mai correre a gettare i loro miseri guadagni in quel baratro d'immoralità, che insieme colla usura concorre a spolpare questi iloti e a mantenerli nel puzzo delle loro tane, dove come porci s'imbragano e gavazzano. Dissimulatori esimii, scaltri come volpi, timidi come lepri e bugiardi come cacciatori, la loro esistenza è una continua scherma di piccole frodi e d'inganni. Sudici un po' per necessità e molto per istinto, manca loro assolutamente il senso della nettezza. Il dare un'occhiata alle cucine della plebe, alle loro pietanze ed alle mani, con le quali se le portano alla bocca, basterebbe a travagliare uno stomaco che non fosse d'acciaro. Pròvati a far loro qualche osservazione, e vedrai. Ti guardano e ridono credendo che tu scherzi. Una sera passando presso allo scalo di Santa Lucia, mi dette nell'occhio un gruppo di persone non indecentemente vestite che, sedute su panche disposte intorno ad un piccolo pozzo senza spallette e scoperto, stavano a bere, frescheggiando, bicchieri d'acqua che mi parve vedere attingere da quel pozzo. Spinto dalla curiosità, scesi e domandai. Il pozzo era quello della sorgente d'acqua ferruginosa, della quale mezza Napoli si abbevera ai mille tabernacoli d'acquajoli posti su quasi tutte le cantonate delle vie. Assistei a questo attingimento e con me vi assisterono anche gli amatori del piccolo Montecatini. Ed ecco come si attinge quest'acqua. Si levano le scarpe, tirano fuori un par di piedi come sono, ma veramente come non dovrebbero essere; si calano nel pozzo mettendo questi piedi in buchette scavate nelle sue pareti, finchè non giungono ad avere l'acqua a mezza gamba, tuffano allora l'anfora ficcandola sotto con le relative mani e dopo escono fuori a dispensare in giro _'u refrisch_ (il rinfresco). Il concorso degli attingitori è giornalmente di qualche centinaio ed il sistema è sempre il medesimo. A te, come a me, correrà subito al pensiero questa domanda: una tromba? o, per lo meno, una secchia, un brandello di fune, una carrucola, un ammenicolo qualunque, non renderebbe l'operazione e l'acqua più pulite, anzi meno ributtantemente laide? Io direi di sì, ma va' a dirlo a loro. Ne ricusai un bicchiere che mi venne offerto e dissi le mie ragioni, ma fu lo stesso che pestar l'acqua nel mortaio. — _Si nun facimmo accussì, comm'avimmo a fà, neh, signurì?_ — Ecco quel che mi fu risposto. Addentrandosi poi ad osservare più da vicino e più minutamente le condizioni morali, il disordine delle idee di questa gente e le sue conseguenze, il senso che si prova, dopo averne ammirate le fiacche virtù e sorriso su i piccoli difetti, è davvero di profondo sconforto, quando siamo arrivati a convincerci che il sentimento della dignità umana è lettera morta per costoro. Per arrivare a levarti un soldo di tasca, son capaci perfino di scendere a leccarti le scarpe, senza mostrare di sentirsi minimamente umiliati da questo atto di ultima degradazione. Un giorno, mentre me ne stavo seduto su la marina presso Piedigrotta, leggendo un giornale, mi si accostò un giovinetto col solito: — _Signurì, u soldo._ — Io che conoscevo un poco l'insistenza degli accattoni, mi proposi, non avendo altro da fare, di metterla a prova con questo disgraziato. Gli dissi, in modo da lasciarlo sperare, la sacramentale parola _vattènn!_ — e seguitai a leggere. Allora lui, per muovermi al riso o alla compassione, cominciò a far capriole, a gonfiare il torace e ad imitare voci d'animali, eppoi: — _Signurì, u soldo_ — Ed io: — _Vattènn!_ — e lui daccapo alla mozione degli affetti. Tirò fuori la lingua che lasciava ciondolare fuori della bocca come un cane trafelato, si arrovesciò le palpebre degli occhi, si mise a corrermi d'intorno con le mani e coi piedi e di nuovo: — _Signurì, u soldo_ — E io daccapo: — _Vattènn!_ — Dopo tre quarti d'ora (avevo guardato scrupolosamente l'orologio) mi alzai annoiato, ma sempre insistendo nel negare la elemosina. Non si perse di speranza. Mi si mise dietro per qualche ventina di passi, rinforzando la dose delle capriole e delle smorfie; e io: no! A che cosa ricorse questo miserabile, quando vide esaurito ogni mezzo per muovermi a tenerezza? Mi si buttò inginocchiato ai piedi, mi spolverò le scarpe col suo berretto e cominciò a baciarmele ed a leccarmele, abbracciandomi strettamente le gambe. Mi balenò l'idea di dargli un calcagno sulla testa, ma poi pensai: Perchè debbo punirti d'una vergogna che non è tua? Gli detti il soldo e tirai avanti. E questa prostrazione morale, questo non senso del proprio decoro non appartiene soltanto agli ultimi straccioni, ma l'ho trovato anche più in su. Un operaio, al quale ebbi occasione di fare un piccolo piacere, venne per ringraziarmi. L'effusione, con la quale principiò a dimostrarmi la sua gratitudine perchè nel fondo questi manierosi erbivori la stoffa del cuore non l'avrebbero cattiva, mi fece quasi tenerezza, ma rimasi bruttamente nauseato, quando, con l'aria della più spontanea ingenuità, mi disse: — Eccellenza, comandate un vostro servo; io sono pronto a fare per voi i più _sporchi_ servigi. — Hai capito? I padroni, a forza di frustate e di dieta morale, hanno saputo addomesticarsi il cane mirabilmente, e con quanto amore badano che non si guasti! Tutto quello che si racconta della famosa iettatura non è favola. E da questo pregiudizio non è attaccato il solo volgo, ma, tolte rare eccezioni, la intera città. Corna nelle botteghe; corna nelle case; amuleti alle catene degli orologi, agli anelli, ai pomi delle mazze, amuleti da per tutto. Famiglie intere di oneste e rispettabili persone sono rigettate dal consorzio civile perchè sospette di comunicare il malefico influsso. Passa un gobbo, un cieco, uno storpio, c'è lo scongiuro particolare da farsi per scansare l'atroce pericolo. Vi passano da destra, il tal segno è opportuno; da sinistra, il tale altro. E chi sa poi quante raffinatezze vi saranno che all'audace profano non è dato conoscere! La loro scienza è la superstizione; la loro fede l'idolatria. Il ridurre il culto della divinità a idolatria non è un privilegio di costoro, ma appartiene alla intera umanità. Però fra questa gente ha le sue manifestazioni più spiccate. Ho assistito a qualche funzione religiosa ed ho potuto notare come siano stati ammaestrati anche intorno a questo soggetto. L'idea di materializzare la divinità e di figurarsi l'Ente supremo in carne ed ossa, con ampia tunica, lunga barba ed occhio fulmineo, provvisto in grado eminente di quattro almeno dei sette peccati mortali, è comune, è radicata in ogni classe di devoti; ma il lazzaro Napoletano va più in là, ed il suo Dio, o meglio il suo Santo se lo immagina addirittura un cialtrone della sua stampa e come lui cedevole davanti alla prepotenza. Egli lo prega fino ad un certo punto e se non ottien subito la grazia richiesta, lo impreca e lo minaccia con urli rabbiosi e strida selvagge: lo deride, gli fa corna e boccacce, finchè ottenuto l'intento, e credendo che il Santo abbia ceduto alla paura, si pente dell'abuso, si scusa e lo ringrazia col viso inondato da lacrime di tenerezza. Le idee: Dio, Diavolo, numeri del lotto, streghe, iettatura, Santissima Trinità, onore, lenocinio, coltello, guadagno, furto, ec., dal modo, col quale sembrano conciliarle, non devono avere nel loro cervello un posto fisso: — _Signurì, famme guadagna' 'nu soldo_ — te lo ripetono continuamente chiedendoti l'elemosina. Ricorrere ad una fattucchiera, per avere i numeri del terno ed accendere il lume alla Madonna, perchè sortano dall'urna, è, fra questa gente, un fatto de' più comuni. Di patria, d'Italia, di nazionalità non occorre parlarne. Essi sono napoletani e basta, ed il resto degl'Italiani, dal lato Nord son Piemontesi, dal lato Sud cafoni e niente altro; ma del rimanente, neppure per il loro nido sentono nobile affezione, non hanno altre aspirazioni che il godimento tranquillo della loro miseria. Lasciateli svoltolarsi nel loro fango e date loro chiocciole e maccheroni a poco prezzo, non chiederanno mai qual forma di Governo regga il loro paese. Amanti all'eccesso degli ornamenti baroccamente sfarzosi, adornano a profusione e di fiori e di foglie le merci che tengono in mostra alla vendita, anche se del genere più vile. Il gonfio _caballero_ che fa, in pubblico, maggiore ostentazione delle sue migliaia, forma l'ammirazione entusiastica di questi poveri iloti. Concetta e Gennaro e i loro figli Peppiniello e Nennella e Totonno e Carminiello e Cannatella e il piccolo Cicillo, hanno passato la notte accatastati sopra un pagliericcio muffito, succhiati dalle cimici e dai pidocchi, intirizziti dall'umido, molestati dalle talpe e mezzi asfittici dal tanfo respirato; eppure a vederli, quando sbucano dai loro vichi che fanno capo su qualche pubblico passeggio, sembrano contenti come le anime più agiate della terra. E quando scorgono passarsi davanti i più lussureggianti equipaggi, guardano, sorridono e si crogiolano mezzi affascinati, dandosi nel gomito e accennando e dicendosi fra loro: — _U bì! u bì! u nostro duca! u nostro conte! u nostro parone!_... — Se li sono ammaestrati, ti dico, se li sono ammaestrati in un modo maravigliosamente maraviglioso. Il Re non è nelle buone grazie di costoro, perchè sotto il suo regno i viveri sono rincarati; ma se Vittorio Emanuele attraversasse i quartieri bassi della città adornato di penne di pappagallo, di campanelli e di gemme di Murano, come il capo d'una tribù selvaggia, si prostrerebbero ad adorarlo. Non per questo tutta l'ammirazione che potessero concepire per un tal pennuto corifeo, varrebbe a sradicare dalle loro convinzioni che Governo vuol dire oppressione; autorità, arbitrio; amministrazione, ladronerìa. «Coi quattrini sarei ascoltata, ma non ne ho; e allora che volete che vada a ricorrere se non son più nè giovine nè bella?» Così mi disse una povera donna che sosteneva d'aver sofferto angheria non so da quale autorità. E credo di non ingannarmi dicendoti che questo è il vero caso di ripetere _ab uno disce omnes_. Il Medio Evo, ormai evirato dal dominio spagnolo, e colpito gravemente dalle riforme di Carlo III, pareva dovesse allontanarsi per sempre da questo felice paese, quando allettato dalle sanguinose carezze di Ferdinando I, cambiò consiglio e rimase. Imbattutosi poi nei trent'anni di regno di Ferdinando II, abbandonò qualunque idea di fuga, rialzò le tende sgualcite e ritrovando in parte la quiete e la salute perduta, si trattenne beato fra gli amplessi del più brutale e pauroso tiranno, a cui tenevan bordone un clero fanatico e prodigiosamente ignorante, e la fetida caterva dei birri alti e bassi, i quali tutti insieme, reggendosi per mano, si dettero a spargere, ciascuno pel proprio utile, terrore, ignoranza e la più abbietta corruzione, senza neanche l'ombra di quel ritegno, dietro al quale cerca onestare le sue azioni anche il più sfrenato birbante. — Un cerchio di ferro chiuse la città, o meglio, l'intero Regno delle due Sicilie, all'apparire di questo fatale monarca. Questo cerchio dopo il 1848 fu anche rinforzato e ribadito maggiormente, essendosi maggiormente rinforzata la paura nell'amato sovrano, e l'isolamento divenne allora assoluto. Il nuovo pensiero che, ingrandendo ad ogni passo, svegliava l'Europa, incontrata la ferrea muraglia cadeva, o spaurito la penetrava in forma di contrabbando mortalmente pericoloso. Una grave nebbia si addensava su tutte le intelligenze; si mettevano i bracchi dietro alle nuove idee e, scovatele, si strozzavano con voluttà. Bastava ostentare devozione al Governo, perchè non aveste più nulla da temere, quantunque depravata la vostra coscienza. Lo spionaggio divenne accortezza; l'arbitrio, zelo; la prepotenza, energia; il pregiudizio, fede. La frode, il furto, la truffa furono incoraggiati ed anche legalizzati, se a questa frode, a questo furto, a questa truffa poteva partecipare l'autorità incaricata di reprimerla. Il sotterfugio diventò sistema; dal sistema sorse la generale diffidenza, la quale, giungendo al suo colmo, non si restrinse fra estraneo ed estraneo, ma fra parenti e parenti e perfino fra padre e figli. Ognuno riguardò il suo simile come un nemico, disposto a tendergli l'agguato, ogni uomo diventò una macchina per conto proprio; la simulazione, la malafede e l'inganno sotto tutte le forme, e un egoismo necessario e spontaneo vegetarono rigogliosi in un terreno così ben preparato. L'isolamento fisico si accompagnò all'isolamento morale e così la intera città, in alcuni periodi, prese l'aspetto di paese attaccato da contagio pestilenziale. D'istruzione e di educazione per il popolo non se ne parlava o, se se ne parlava, era data nelle mani di coloro che non volevano, che non sapevano, o ai quali veniva imposto di compartirla secondo le teorie di chi dichiarava opere diaboliche il vapore, il telegrafo, la fotografia e tutte, insomma, le più grandi manifestazioni dell'ingegno umano. Il vero ingegno, se rivolto alla luce delle scienze, era soffocato sotto la persecuzione; l'onestà sospetta e tenuta d'occhio. In mezzo alla putredine di una società costituita su tali basi, la peggiore anarchia morale trovò il suo alimento, ed in tempo che da un lato rare ed eroiche individualità sorgevano sdegnose a fare intendere il loro grido di ribellione fra le torture, le galere e gli esilii, la gran massa degli oppressi volgari, irritata contro tutto e contro tutti dalle continue e minute sevizie d'una sbirraglia selvaggia, prepotente e brutale, ribollì nel suo fango, e la camorra che fino allora aveva strisciato umile e scalza nei bassifondi sociali, alzò ardita la testa; ferocemente oppose la prepotenza de' suoi muscoli e de' suoi coltelli alla prepotenza legale, spesso con quella si accoppiò e giunse allora al mostruoso apogeo della sua grandezza. Tanti hanno detto di questa terribile associazione e con profonda conoscenza di causa, che io non m'impancherò ora a parlartene. Ti dirò soltanto che da quel tempo in poi la camorra non ha mai cessato di esistere e che non cesserà mai, nonostante le sfuriate di persecuzione che si è preteso farle, finchè non sarà affatto scomparsa l'ultima delle cause che le dànno vita. La plebaglia ne ha paura, ma la rispetta, perchè da questa specie di prepotenti che la opprimono, è sicura di esser difesa, quando la prepotenza e l'abuso le cadano addosso da altre parti. In qualche momento potrà anche odiarla, ma la difenderà sempre, riguardandola come la sola, come l'unica autorità, dalla quale possa sperare qualche cosa che somigli alla giustizia, fino a quando non avrà appreso per esperienza e palpato con mano che i tempi e le cose sono cambiati in meglio anche per lei. Capisco che la gravità di quest'ultimo sproloquio è una stonatura di fronte alla leggerezza, con la quale ti ho parlato di altre cose; ma credi pure che una volta veduta da vicino ed annusata questa lebbra, siamo presi da tal malumore, che non è possibile fare diversamente. O prima o poi accadrà qualche cosa di grave, e allora vedrai le nuove sfuriate di persecuzioni. Leggeremo tutti i giorni sui fogli pubblici che è stata fatta una _razzìa_ di camorristi, ed avranno fatto bene e ci crederò. Dopo un certo tempo sarà anche annunziato a grandi lettere: — La camorra è estirpata. — Nossignori, non vi crederò. I camorristi hanno polsi e perciò si possono ammanettare; hanno corpo e figura e perciò si possono imprigionare e deportare, ma la camorra non si ammanetta, non si carcera, nè si deporta. Io ho veduto i camorristi, ho parlato con loro, gli ho veduti nell'esercizio delle loro funzioni in Napoli, nei dintorni, a bordo dei bastimenti; gli ho guardati, ho parlato con loro, gli ho perfino toccati, gli ho perfino veduti giocare a briscola con chi aveva il dovere d'intimar loro l'arresto, ma la camorra non l'ho veduta mai. Mi è parso vedere qualcuna delle sue mille cause e mi basta di averle accennate a te come meglio ho saputo; al resto ci pensi chi vi vorrà pensare. Proposte di rimedj non te ne faccio per la grande ragione che non saprei farne. Soltanto mi contenterò di osservare, e sempre in linea d'impressioni di viaggio, che nelle condizioni morali di questa plebe altro non m'è parso scorgere che un pericolo manifesto e una vergogna per l'Italia intera. Saluta al solito e addio. LETTERA III. Dove si parla di Sorrento, d'Amalfi e di Pompei. Napoli, 11 maggio 1877. .... No, amico mio. Chi ti ha detto che è possibile, o non ha mai veduto questo paese, o t'ha ingannato. Napoli coi suoi dintorni è l'unica terra d'Italia, io credo, che non ha delusioni anche pel viaggiatore che ci capiti inebriato, dopo averne sentito parlare da un pazzo! La descrizione più pittoresca; il quadro di un pennello prodigioso; il capitolo d'una penna sublime, impallidiscono davanti alla realtà. È così grande questa bellezza, e tanti elementi vi concorrono che occhio e cervello umano non possono esser capaci di afferrarla intera, non che di descriverla. La più pittoresca descrizione che un uomo possa farne, la ebbi l'altro giorno dalla bocca di un modesto fraticello di Camaldoli. — Vedete, signore, — mi disse, — son cinquant'anni che tutte le mattine vengo su questa terrazza a dare un'occhiata al Golfo, e tutte le mattine lo guardo e mi rattrista come se non l'avessi veduto mai. — E intanto la fresca brezza del mare mi rinfrescava la fronte, mentre affacciato alla finestra del vagone, mi bruciavo gli occhi guardando il sole che sfacciatamente bello si slanciava nel cielo dalle criniere dei lontani Appennini. Fortunatamente i miei tre compagni di viaggio erano allo stesso grado d'entusiasmo, se no, avrebbero riso delle mie smanie. — Che festa incantevole! che dovizia di colori e di luce! che sterminato sorriso di natura è questo! Se Egli stesso mi dicesse di no, non ci crederei. Dio si deve esser pentito d'essersi lasciato cadere questo pezzo di paradiso su la terra. Per correggere lo sbaglio, ha aperto quaggiù gole d'inferno che vomitan fiamme e minacciano distruzione da ogni parte, ma, per il suo scopo, ha fatto peggio che a lasciar correre. — Ormai lo sbaglio è fatto e non si rimedia, e questi abitanti ridono, cuocendo le bistecche al fuoco delle lave, e questo mare e questo cielo e queste piante ridono, ridono e ridono come nelle ore del chilo devon ridere i beati a pancia all'aria, per le viottole del paradiso. Il treno strisciando turbinoso per la pianura allargava i polmoni ad un lungo sibilo che pareva d'allegrezza, attraversando le polverose borgate tanto fitte tra Napoli e Torre del Greco, da sembrare una continuazione della vecchia città. — E noi si guardava maravigliati. Da una parte il Vesuvio che taciturno fumava la sua vecchia pipa, e sopra a' suoi fianchi gli sterminati campi di lava che a distanza sembrano, in mezzo al verde smagliante della campagna che li contorna, ombre immobili portate da grosse nubi; giù nella valle, affondate in un soffice tappeto di verdura, centinaia di casette rurali o solitarie o raggruppate intorno a goffe chiesuole, alle quali mancavano soltanto i minaretti, per aspettare da un momento all'altro che la voce del Muezzin si alzasse misteriosa dalle loro cime, per chiamare i fedeli alla preghiera. E tutti questi edifizj bruni e smantellati come avanzi d'incendio, pareva che dicessero al vulcano: Vuota su noi le tue viscere di fuoco; non avrai nè fatica nè rimorsi; guardaci, siamo preparati. — Ritirando lo sguardo da questa scena secca e abbrustolita, compariva dall'altro lato il mare biancheggiante di spuma e di vele, e in lontananza i villaggi di Vico, Mèta, Sant'Aniello e Sorrento, tuffati fra i boschetti d'aranci e candidi come gruppi di piume che potevan credersi quelle cadute dalle ali degli Angeli, quando scesero ad amoreggiare colle figlie della Terra, e poi Capri con le sue pergamene di granito, e Ischia e Procida e la nebulosa Ponza, dietro alla quale la dubbia caligine del mare lontano diceva agli occhi insaziabili: Ora basta. I miei compagni erano tre: il pittore _S._ di Firenze, il _B._ di Bologna, anche egli pittore, e la sua signora; una bella figlia della animosa Romagna, i cui occhi bruni e lucenti stavano su quel viso ridente come due tormaline nere incassate in un cristallo di quarzo roseo. Chiassoni, allegri e spensierati come me; pieni di voglia di godere, e capaci d'intendere tutto il linguaggio di quella natura divina. Migliori compagni non avrei potuto desiderare. Arrivammo a Castellammare. La patria dei più arditi navigatori di queste coste, del famigerato _Duilio_ e dei più abili costruttori navali d'Italia, è un pezzo di Napoli portato in quella cala e nulla più, ma le montagne che le stanno a ridosso e il panorama del Golfo che si gode di là, è stupendo. Conservo uno spiacevole ricordo di quella città. Appena che fummo scesi dal treno ed assaltati da uno sciame di ciceroni, ciucai, vetturini, accattoni _et cætera animalia_, m'accorsi di non aver più addosso il portafogli. Non volevo mettere gli amici a parte del mio disturbo, ma non avendo potuto nasconder loro l'imbarazzo, nel quale mi trovavo e l'alterazione della mia faccia, mi domandarono con ansietà che cosa avessi. — Mi hanno rubato il portafogli! — Ma come! ma dove? ma quando? — Ora, ora nel momento; due minuti fa l'ho tirato fuori per dare qualche cosa a quel vecchio.... — E ci avevi molto? — Ci avevo tutto — Ma ti sei cercato bene addosso? — Ho frugato da per tutto e non l'ho più. Guardate: qui, niente; qua nemmeno.... non l'ho, non l'ho più assolutamente. Addio, amici; proseguite pure per Sorrento; io torno indietro; divertitevi e compatitemi se.... Uno scoppio di risa sonore interruppe le mie parole d'addio. Domandai alquanto indispettito il perchè di quel riso e mi risposero con un'altra risata più grossa della prima. E perchè quelle risa così crudelmente inopportune? Avevo il portafogli in mano. Dileguata la breve, ma rabbiosa tempesta, mi scusai ad alta voce con gli amici, per aver loro procurato quel disturbo, e nell'animo mio chiesi scusa anche ai ciucai, vetturini, ciceroni e accattoni castellammaresi, dei gravi dubbj che per dieci minuti avevo avuto su la loro onestà, e proseguii il cammino lungo la marina tutto umiliato, parendomi di scorgere in ogni occhio languido che mi fissava, il dolce rimprovero di Cristo a Pietro: _amice, quare dubitasti?_ Per questa volta avevo avuto torto. La giornata non era riuscita degna della fama di questo cielo, ma considerato che la monotonia finisce con lo stancare, anche se del genere migliore, non ci dispiacque punto che certi bianchi farfalloni di nebbia, volando celeri per l'aria come cigni giganteschi, ci riparassero, di quando in quando, dalle carezze un po' troppo calde d'un sole, che mezz'ora fa aveva arrostito le palme di Siria; ma altri nuvoli un po' troppo compatti e forse troppo terrestri, ci facevan pagar caro il benefizio di quelli aerei. Il nuvolo dei parasiti ambulanti che ci ronzavano d'intorno, pigolando vigliaccamente l'eterno soldo, era anche troppo nauseante, e siccome tra questi brillava molestissimamente l'ottava piaga del genere umano, voglio dire un vetturino che non si chetava mai, mai alla lettera, di offrirci i suoi _disinteressati_ servigi, e che ci avrebbe seguiti indubitatamente fino a Sorrento, invitandoci nella sua vettura, se ci fosse piaciuto di far la gita a piedi, insaccammo finalmente nella sua carrozza che, del resto, era comoda e bella, e ci mettemmo in cammino per la desiderata Sorrento. Attraversato rapidamente il breve piano della marina di Castellammare, incomincia subito lo stupendo tratto di strada incassato fra dirupate scogliere. Questa via per me è quella che contribuisce essenzialmente alla grandissima e giustificata fama delle bellezze di Sorrento, il quale di per se stesso altro non è che un meschino e sparpagliato villaggio che, abbordato dalla via di mare, piuttosto che soddisfare al desiderio del visitatore, mostrando una bellezza sorridente, gentile ed intonata col grato effluvio de' suoi cedri fioriti, presenta invece l'aspetto d'un castello da burattini, collocato in cima a un rozzo muraglione ciclopico. Il Sorrento dei poeti non è Sorrento, ma la strada che conduce a Sorrento. E questa strada è maravigliosa. È un succedersi continuato di punti di vista uno più stupendo dell'altro. Dopo aver attraversato un tratto di via di un orrido pittoresco, irto di scogliere maestose e di precipizj, in un momento ci troviamo in fondo a graziose vallicelle, in una specie di giardini d'Armida, sparse di ameni casolari rimpiattati fra boschetti di cedri giganteschi, sopra i quali passando la brezza del mare c'investe e ci ricrea con un'onda di profumo e ci ricopre, con una pioggia di petali bianchi. È una scena delle più fantastiche, è un idillio soave della Natura cantato dalla voce del vento. La _madreselva_ e il _glicene_ flessuosi, attorcigliandosi alle cancellate dei giardini, s'inerpicano di balcone in balcone, e correndo lungo le facciate delle case, vanno a nasconderle sotto una coltre di verdura e di fiori; agave colossali, fichi d'india, palme, carubbi e olivi dalla foglia scura come quella dei lecci, ed ai quali l'acqua del mare bagna di spuma i tronchi sottili, slanciano le loro braccia in aria e si affollano sull'orlo dei dirupi, sollevando le loro chiome uno al di sopra dell'altro, come se anch'essi volessero bearsi nella vista del mare e del paese divino che li circonda. Che sogno fantastico, che gioja dell'anima era quella! Io me la bevvi a larghi sorsi e mi trovai felicemente beato, ripetendomi l'ottava dell'Ariosto: Vaghi boschetti di soavi allori, Di palme e d'amenissime mortelle, Cedri ed aranci ch'avean frutti e fiori Contesti in varie forme e tutte belle, Facean riparo ai fervidi calori De' giorni estivi con lor spesse ombrelle; E tra que' rami, con securi voli, Cantando se ne gìano i rosignoli. I rosignoli mancavano; il resto c'era tutto. A quando a quando s'incontrano gruppi festosi di giovanetti che vi salutano strillando e gesticolando, invitandovi quasi istintivamente coi loro _u bì! u bì!_ (guardate! guardate!) a contemplare la scena incantevole che vi sta davanti. Pare che tutto brilli, che tutto si muova, che tutto intuoni una dolcissima armonia intorno a noi; pare che il cielo e la terra siano impazzati e che sorridano delle nostre faccie melense perdute in un oceano di estasi contemplativa. A brevi intervalli, una borgata piena di bighelloni inconsci del privilegio loro dato dalla natura, d'averli fatti nascere sotto questo cielo meraviglioso, anima il paese tranquillo che si percorre. Tutto è intonato in questa beata regione: il cielo, il mare e la terra rivaleggiano di splendore, di luce e di vita; l'uomo solo rimane inferiore in questa artistica gara e quanto al di sotto! Sarò stato sfortunato ne' miei incontri, ma quello che dico è precisamente quello che ho visto, senza coda nè amputazioni. Le donne della campagna, specialmente, sono addirittura brutte, e Dio sa se questa delusione è dolorosa, quando non si dubita neanche per ombra che la Natura non abbia voluto fare compiuta quaggiù la sua opera, popolando di angeli questa regione divina. Dio che angioli decaduti! Sono brutti i loro visi, ma più brutti poi se li riducono, perchè avendo il costume di tenere in testa una pezzola che contorna loro la fronte fermandola con un nodo alla nuca, sono costrette dai raggi cocenti di un sole mezzo africano a tener gli occhi bassi ed accigliati, ed a guardare di sotto in su in un modo che dà alla loro espressione qualche cosa di bestiale e di feroce. Ah! una bella figlia degli uomini l'avrei incontrata con tanto entusiasmo in mezzo ad una selva d'aranci! ma non ebbi l'onesta soddisfazione. Gli uomini sono emaciati (quelli che ho visto io, veh! perchè il caso potrebbe avermi fatto veder lucciole per lanterne), pallidi e di forme così grossolane, che tuttora mi rimane il dubbio d'essermi ingannato, perchè mi pare impossibile tale anomalia in mezzo alla vita sana e gentile che spira da ogni foglia, da ogni sasso di questo paese benedetto. Oh! Amalfi, Amalfi! In mezzo allo splendore dei colli di Sorrento, rammentai Amalfi ai miei amici con questa esclamazione: Oh! Amalfi, Amalfi! — Sei già stato ad Amalfi? — mi domandarono subito. — Sì. — Diccene, diccene qualche cosa, perchè prima di tornare alle nostre case, vogliamo andarvi anche noi. — Andatevi e farete bene, ma andatevi dopo d'aver visto tutte le bellezze dei prossimi dintorni di Napoli, perchè la costiera d'Amalfi vi farà lo stesso effetto che a guardar fissi nel disco del Sole; vi troverete abbagliati e per qualche tempo non sarete capaci di veder altro. Se poi mi domandate in che consiste tanta bellezza, io vi risponderò come se mi aveste domandato: perchè i poemi d'Omero sono belli? I poemi d'Omero son belli, perchè sono belli, e se qualcuno volesse provarvelo con altri argomenti, ditegli che non capisce nulla e non avrete sbagliato. Nel tragitto da Vietri ad Amalfi, uno che sia un po' facile all'entusiasmo, corre rischio d'impazzare. E io ebbi dei momenti, nei quali credetti di perdere il cervello da vero. La strada che corre lungo la riviera alla metà dei fianchi di montagne scoscese, o meglio, di enormi scogliere, in qualche tratto è sospesa addirittura sul mare profondo, e su la superficie di questo mare, che sembra un tappeto di cobalto, vedevo sotto di me grosse navi mercantili filare con l'intera velatura spiegata e formicolare la ciurma sul ponte di piroscafi che la distanza faceva sembrare immobili e piccoli come balocchi da fanciulli. Provai la voluttà di una navigazione aerea senza l'orrore del pericolo. Di tratto in tratto s'incontrano deserte rovine di castelli Normanni che abbandonati all'opera del tempo cadono a pezzi, e qua e là, accucciate fra gli scogli in mezzo a piccole oasi di verdura, solitarie casette bianche bianche, pulite pulite, i felici abitatori delle quali salendo alla cima del monte colgono i frutti del castagno, la pianta che segna il principio delle zone frigide, e scendendo verso la marina, il dolce fico d'india, il fiore d'arancio per profumare le loro stanzuccie ed i rami della palma che incrociati su la porta di casa, allontanano i fulmini e le streghe. Le marine di Majori, Minori e Atrani, la patria di Masaniello, che s'incontrano per via, sono quel che può esservi di più ameno e di più pittoresco su la terra. Nel contemplare quei tranquilli e ridenti gruppi di case che partendo dal mare s'inerpicano come caprette su per i dirupi della montagna; le cupole delle loro chiese che coperte di maioliche colorate luccicano alla luce del sole; i boschetti di agrumi che le contornano; i viottolucci scoscesi che scendono serpeggiando fino alla spiaggia, dove una popolazione tranquilla di pescatori lavora e canta fra lunghe file di reti che brillano al sole, si prova una gioja ineffabile, una pace serena, un tal senso di beatitudine che posandosi sul core lo stringe, e lo stringe con tanta dolcezza che a poco a poco ci sentiamo nascere il desiderio doloroso di passare su quelle spiagge serene la nostra vita, magari anche di morirvi, quantunque l'idea della morte sembri tanto strana su quelle magiche rive che, incontrando un trasporto funebre, c'è da maravigliarsene credendolo una finzione. Il giorno del giudizio, per gli Amalfitani che andranno in Paradiso, sarà un giorno come tutti gli altri. Come deve esser dolce l'ozio all'ombra d'un olivo d'Amalfi! In verità, se quegli abitanti sono capaci di guadagnarsi il pane col sudore che tutti chiamano soltanto della fronte, bisogna riconoscere in loro una grande virtù, poichè l'unico bisogno potente che si fa sentire in quel clima è il bisogno di non far nulla; la vita d'Adamo prima dello sbaglio e niente più. Povero Adamo! All'accesso di estasi contemplativa davanti a tanto lusso di quella splendida natura, tenne dietro un altro accesso d'entusiasmo rumoroso. E non so quello che avrei detto e che avrei fatto, se non mi avesse tenuto in freno l'aspetto taciturno dell'unico mio compagno di viaggio che non aprì bocca, altro che sul principio della nostra gita, per chiedermi se gli permettevo di fare abbassare il mantice della carrozza. — Mio padrone, gli risposi, purchè non si tenga offeso se per godermi questo sole, scendo subito e vado a cassetta. Non me lo permise. Era un Francese e tanto basta, per capire che doveva essere una persona gentile; ma, del resto, non capiva nulla. Era biondo, era grasso ed era pallido! che potevo io pretender da lui? — Ma non pare anche a lei impossibile che questo sole abbia il coraggio di tramontare dopo essersi veduto tanto bello nello specchio di questo mare? — mi guardava e sorrideva. — Ma guardi Salerno, le prime catene della Calabria col suo Cilento nevoso! ma contempli quelle isolette che si perdono quasi in un velo di nebbia infuocata; quella casetta lassù in cima, dove pare che non si possa andare altro che con l'ali; ma si serva degli occhi, Dio lo benedica, davanti a quel gruppo di giovinette che ci vengono incontro coi busti dai colori orientali e coi capelli nerissimi arricchiti di fiori di ginestra; quei pescatori, guardi quei pescatori laggiù in fondo in fondo che fanno matanza nella tonnara; se non vuole urlare com'ho urlato io poco fa «fuori l'autore!» mi dica almeno che qualche cosa è bello, che qualche cosa le piace, mi dia un segno, un segno solo d'ammirazione, ed alla prima occasione non mancherò di raccomandarlo alla misericordia del Signore, ma mi dica qualche cosa se no scoppio. — Mi guardò di nuovo sorridendo, e per mostrarmi quanta parte prendeva al mio entusiasmo mi disse che quel sole era intollerabile, e dètte un'occhiata tenera al mantice calato. — Ebbi pietà del suo cervello; il mantice fu tirato su ed io me n'andai a cassetta. Non ne ho l'ombra del dubbio, io devo esser sembrato a lui un grande imbecille, ma non mai quanto egli sembrò felice a me. Ma dove avrà rimpiattato colui i suoi _charmant_, i suoi _éclatant_, e tutti i rimbombanti _étonnant_, coi quali i febbricitanti figli della Gallia _étonnano_ le strade di questa piccola Italia ammirandone le infinite maraviglie? Chi sa! Lo scusai in parte, perchè seppi poi che andava ad annunziare ad un nipote d'Amalfi la morte d'uno zio di Napoli. Ed infatti conobbi al ritorno anche il nipote, il quale, viaggiando in nostra compagnia, ostentò con molta disinvoltura un profondo dolore e si mostrò abbastanza soddisfatto della irreparabile perdita sofferta. Arrivammo ad Amalfi. L'arrivo d'una carrozza in quel remoto cantuccio della terra è un mezzo avvenimento. Tutti si affollano intorno ai nuovi arrivati; li guardano, li osservano, ma stando però a distanza e mantenendo un contegno semplice e rispettoso; vi si offrono per servigi, vi esibiscono indirizzi di locande, vi domandano notizie dei paese, dal quale venite e se volete cavalcature per visitare i dintorni, ma tutto con garbatezza di modi, con un sorriso onesto su la faccia, e.... inarcate le ciglia, amici miei, non vi domandano l'elemosina! Crediate pure che nel trovare, uscendo di Napoli, un paese dove non ci chiedano l'elemosina, c'è da sentirsi venire un accidente dalla consolazione. «Signurì, u soldo» Dio eternamente misericordioso! Amalfi, nella sua solitudine, è gaia. In mezzo a tanta profusione di caldo, di luce e di colori, non è possibile concepire l'idea di mestizia. Le sue case sono bianche e pulite, il mare che strepita fra le ghiaie della sua spiaggia è limpido e azzurro come il suo cielo; soltanto le rupi che protendono su la piccola città le loro masse brune e minacciose, si proverebbero ad essere orride pei loro profili scabrosi e taglienti, ma i bracci montuosi dei caseggiati che s'inerpicano su quelle come tralci di edera bianca, e i ciuffi di verdura che ne smussano le aspre sinuosità, le contornano, le avviluppano e se le stringono con tanto affetto fra loro che, quasi soffocate, anche esse son costrette a sorridere sotto un profluvio di carezze, di baci e d'allegria. L'unica strada di Amalfi che possa veramente chiamarsi una strada, ha usurpato il corso del torrente che dovrebbe scaricarsi giù per la stretta forra, dentro la quale è incastrata la capricciosa città; le altre arterie di comunicazione non sono che lunghi e stretti antri percorsi da scalinate, i quali s'internano bui e profondi nel corpo dei fabbricati, dando origine ad altre scalinate secondarie, finchè non fanno capo a qualche scosceso viottolo che serpeggiando si perde su per i dirupi della montagna. Non credo che fantasia di scenografo possa immaginare nulla di più pittoresco. Nessuno dei rumorosi prodotti dell'incivilimento: carrozze, omnibus, _tramway_, corni, trombe, e il Diavolo che se li porti, turba la quiete serena di quelle spiagge; ed anche il vizio non deve esser giunto laggiù alla sua ultima espressione, poichè il sangue di quei pacifici marini è fresco e colorito. L'antica razza dei robusti e feroci pirati non ha perduto nella discendenza altro che la ferocia; la robustezza v'è rimasta intatta. Belle carni, bei capelli, belli occhi e bellissimi denti, sono i connotati distintivi dei fortunati abitatori di quella fantastica regione, uomini e donne. L'aureola di gloria che contorna i ricordi di Amalfi, ispira anche un senso di ammirazione per quegli umili pescatori, quando si misura con l'occhio la piccolezza di quel nido che sembra ora di falchi, ma che è stato di aquile, di poche aquile e dalla vita breve, ma aquile ardite che in piccolo stuolo, o correndo sui mari o meditando sul loro inaccessibile scoglio, hanno arricchito con le armi di fatti gloriosi le vergogne del Medio Evo, dato alla scienza una delle più grandi invenzioni umane, la bussola, e serbato attraverso al bujo di secolare ignoranza i codici di Giustiniano, la più ricca eredità che sia giunta a noi dell'antico incivilimento, e davanti alla quale ognuno dovrebbe inchinarsi reverente, se, contrariamente al suo scopo, non servisse tuttora da inesausta miniera di laidi cavilli alle coscienze più agguerrite che vestan carne sotto la cappa del sole. Chiusi con questa eresia il racconto delle mie impressioni d'Amalfi, perchè eravamo già arrivati a Sorrento. Ti saluto, bellissima Sorrento; ti saluto, o patria, per caso, del sublime e languido cantore degli amori di Olindo e Sofronia; e ti saluto, o patria degli accattoni più petulanti che si battezzino fra i quattordici milioni d'analfabeti del regno beato! e scendendo dalla carrozza segnai sul mio taccuino: arrivato a Sorrento il dì 10 maggio 1877 a ore 11 antimeridiane precise. Mentre scrivevo, mi si accostò una faccia torva domandandomi: — Eccellenza, state scrivendo le vostre memorie? — (cominciò di lì per chiedermi _u soldo_.) — Sì, — gli risposi — e tu le tue prigioni quando le scriverai? — «Ah! eccellenza, nun saccio a scrittura.» — E questa risposta me la fece con tanto abbandono, con tale intrigliatura delle pupille che mi avrebbe fatto tenerezza, se accompagnato da un suono speciale del suo rimpianto non avessi visto un lampo della sua anima falsaria schizzargli un palmo fuori degli occhi. Scendemmo alla marina, visitammo i giardini e i più prossimi dintorni del paese tutti bellissimi, e dopo andammo ad ammirare l'abitazione che fu della Imperatrice di Russia. Che vi trovammo da ammirare? Mah! Quattro mura che son celebri, perchè vi ha alloggiato una Imperatrice, la quale è celebre, perchè è Imperatrice! — Ah! signorino, — mi diceva una donnicciuola, — che gran signora era quella! — Quando le si offriva un mazzo di fiori ci diceva grazie, e ci guardava ridendo. — Corpo di settantamila cosacchi, non mi burlate! — Davvero, signorino, — e mi presentò una rosa. Povere creature! abituati a non vedersi guardare altro che in cagnesco da tutti quelli che essi chiamano _li galantomini_, non rammentano le elemosine della danarosa Czarina; rammentano invece i suoi «grazie» e i suoi umani sorrisi. Il nostro cicerone che non mancava mai di levarsi il cappello e di _eccellenzarci_ ogni volta che ci volgeva la parola, pretendeva d'esser tanto pratico nel riconoscere di che provincia erano gl'Italiani che gli capitavano sotto, che non sbagliava mai. Allora io lo invitai a dirmi di dove credeva che fossi. — Piemontese, — mi rispose subito. — No. — Lombardo. — Nemmeno. — Romagnolo. — Neanche. — Veneziano. — Meno che mai. — Stette un po' a pensare e non gli venendo detto altro, gli dissi che ero Toscano; e deridendo la sua presunzione, gli domandai come mai non mi aveva riconosciuto per tale. Mi rispose: — Eccellenza, non avete bestemmiato il nome d'Iddio e non m'avete detto _figlio d'un cane_. — Oh! — Mandando in burla la cosa, risposi che non gli avevo detto niente di tutto questo, perchè non me ne aveva presentata l'occasione, ma il viso mi deve esser diventato leggermente rossiccio, quando pensai alla gentilezza della mia Toscana così ingenuamente confutata da un cicerone di Sorrento. — Cercai ricordi e tradizioni del Tasso, ma non mi fu possibile trovarne traccia. Nessuno di quei popolani seppe rispondermi quando rammentai quel nome; nessuno canta le sue ottave, e ne fui maravigliato ricordandomi che i navicellai del mio piccolo Arno le cantano innamorati, rompendo la magra corrente, e i contadini delle mie solitarie campagne le intonano a gola spiegata, facendo la foglia su la cima dei pioppi. Il _nemo prophæta in patria sua_ a nessuno è meglio applicabile che all'infelice poeta. Il cicerone stesso, che dopo i dottissimi del luogo poteva esser creduto il più dotto, almeno per ciò che riguarda le memorie storiche del paese che illustra co' suoi spropositi, conducendomi verso la casa del Tasso mi disse che avrei visto poco, e che la fabbrica era stata da poco tempo rimodernata, inquantochè quel signore, del quale domandavo, era molto tempo che non _ce stava chiù_. Indispettito di tanta stupidaggine, lo trattai d'ignorante. Se n'ebbe per male e si allontanò ringhiando. Superbi, formidabili, feroci Gli ultimi moti fûr, l'ultime voci. Principale scopo della nostra gita era l'isola di Capri, alla quale ci eravamo proposti di andare, imbarcandoci sul piccolo piroscafo che da Napoli fa le sue gite giornaliere toccando Sorrento. Ma il battello non venne. Era domenica e la fede puritana degl'Inglesi che formano sempre la quasi totalità dei passeggeri per una tal gita, aveva impedito al capitano di trovarvi il suo tornaconto, facendola presso a poco a vuoto, onde se n'era rimasto nelle acque di Santa Lucia col suo puledrino acquatico, il quale, non dandogli biada, lascia strillare i regolamenti e l'orario, ma non si muove. Che si fa? Andiamo a Pompei! Fu accolta con acclamazione la mia proposta, e dopo aver girellato qualche altro poco intorno a Sorrento, raggiungemmo la nostra vettura e partimmo per la morta città. Eccoci a Pompei! ecco portato alla realtà un altro de' miei sogni dorati. Tutto quello che se ne era letto e sentito dire, diventò per noi un inganno, appena messo il piede dentro alle sue mura, perchè Pompei è più bella, è più attraente di tutto quello che ce ne era stato detto e di tutto quello che ci eravamo immaginati. I miei compagni guardavano e non muovevano labbro, percorrendo le sue vie silenziose e deserte, ed io pure, occupato da un vago senso di piacevole mestizia, guardavo maravigliato e tacevo. Eppure la vista di tanta desolazione non rattrista. Bisogna che la mente del visitatore faccia uno sforzo vigoroso, per convincersi che quelle lastre suonanti sotto i suoi passi, e, quelle mura coperte di così allegri colori sono gli avanzi, le membra inanimate d'un cadavere. Nessuna delle squallide e disgustose apparenze della morte colpisce gli occhi. Più che una morta, sembra una bella addormentata, e quei lunghi solchi formati sui selciati dalle bighe che ve li tracciarono diciotto secoli or sono, quelle cellette, quei letticciuoli, intorno ai quali si vedono su l'intonaco delle pareti le tracce dei dormienti, che milleottocento anni fa si erano alzati da quelli senza tornarvi, pare che riposandosi aspettino sempre. Ogni volta che s'incontra qualche altro visitatore vien voglia di crederlo un vecchio abitante misantropo, che è sceso appunto su la via, perchè gli altri Pompejani son fuori delle mura; e l'illusione qualche volta giunge a tal segno, che si sarebbe tentati di credere che domandandogli de' suoi concittadini ci risponderebbe: «Sono tutti scesi stamani ad Ercolano, ove il Divo Augusto assiste allo spettacolo di una battaglia navale. Stasera torneranno.» Pompei è la città che ha saputo morir meglio di tutte le altre sue bellissime sorelle della Magna Grecia, poichè la morte violenta per asfissia è l'unica morte che si addice alla bellezza. Sui giganteschi ruderi di Agrigento e di Siracusa, sui loro scheletri corrosi dal tempo, l'archeologo non può studiare che osteologia, mentre il cadavere di Pompei ha tutte le sue membra intatte; il suo sangue è fermo, ma non ha perduto il suo roseo colore che trasparisce sotto la pelle gentile. L'anima è partita ed il corpo non si è corrotto. Se si eccettuano le impalcature e le coperte delle case che erano formate da terrazzi, quasi tutti gli edifizi di Pompei potrebbero essere anche oggi comodamente abitabili. Gl'impiantiti delle stanze, per la massima parte fatti a mosaico, sono tutti al loro posto perfettamente conservati; gl'intonachi delle pareti e i loro dipinti sono così freschi da sembrare impossibile che il Tempo e l'Oblio vi abbiano per tanti secoli battute sopra le ali, quando ne ammiriamo la forza e la vivacità del colorito. Molte case sono tanto compiutamente conservate, che perfino alcune sottili e delicatissime cornici di stucco a scagliola, lavorate a minute membrature di fogliame, di vovoli e di fusarole in alto rilievo, vi si trovano intatte. Ed è così fresca l'aura di vita che regna tuttora in quelle anguste ed eleganti casette che fra tutte le immagini che dolcemente tumultuose si sollevano nel core, ultima è quella delle strida e dei rantoli disperati delle misere vittime che sorprese dalla pioggia infernale cadevano abbrustolite per le strette vie o soffocate nel fondo dei sotterranei. Si ritorna invece a viver con loro; ne vediamo le gioie intime, le pubbliche feste e par di intendere ancora le voci allegre dei crocchi domestici, lo strepito dei festini imbanditi nelle ricche sale di Diomede e la romba della voce del popolo sollevarsi confusa dalle traboccanti gradinate dell'Anfiteatro. In mezzo alla vita imbevuta di gentilezza greco-romana che si respira là dentro, ed in tempo che si ammira stupefatti la cura che è stata presa per il perfetto mantenimento di tante maraviglie, dispiace soltanto il vedere come a nessuno ancora sia venuta la felice idea di ripristinare una casa, una sola basterebbe, corredandola di tutti i suoi mobili, che nessuno scapito verrebbe a risentirne il già troppo ricco Museo, preparando così intero l'inganno al taciturno visitatore. Anche la posizione, su cui si è addormentata questa città, non è quella che noi ci eravamo immaginati e che tutti s'immaginano. All'idea di una città sepolta succede subito l'idea o di bassura umida o di orizzonte limitato. Non è vero. Pompei siede sul colmo di un colle; da ogni parte l'occhio spazia in un largo orizzonte e quei bastioni di terra che ci eravamo figurati dovessero incontrarsi ad ogni estremo delle sue vie dissepolte, e dovessero serrarla come nel fondo di una vastissima cisterna, non gl'incontrammo. Tutto è luce, spazio ed allegrezza quello che si scorge di lassù. Il Vesuvio solo ha cambiato aspetto vedendolo da quelle mura. Il Vesuvio che osservato da qualunque altra parte si mostra sempre severo, ma non mai sinistro, veduto da Pompei è truce. La sua massa apparisce da quel lato più scabrosa, più tormentata e più nera; rare abitazioni si vedono soltanto giù alle sue falde e la vegetazione manca affatto. Scendendo per la via dei Sepolcri, lo guardavo con paura e me ne dispiaceva per lui. Il mio Vesuvio che da ogni altro luogo non avevo mai guardato senza sentirmi battere il core dolcemente commosso, come alla vista d'un burbero e benefico vecchio, mi fece allora ribrezzo, e mi sentii raccapricciare come alla vista d'un omicida, che ferocemente tranquillo fuma ed osserva il cadavere della sua vittima. Non ci trattenemmo lungo tempo in Pompei. Accompagnati da una folla di pensieri lontani lontani, calammo alla prossima stazione della strada ferrata, dove una numerosa comitiva dei soliti pellegrini faceva un baccano diabolico. Dopo un quarto d'ora, durante il quale ci fu strappata malamente ogni poetica illusione, partimmo, ed ora eccomi qui in Napoli a scriverti questa lettera che non voglio chiudere senza raccontarti, giacchè mi capita la palla al balzo, un aneddoto originale a proposito di questi pellegrini, che sono stati il mio incubo dalla partenza da Firenze fino ad oggi. Ne ebbi sei, maschi e femmine, per compagni di viaggio da Chiusi a Roma; e con quanto piacere gli udissi sbuffare per tutta la via e dir male di tutto e di tutti in tre o quattro lingue, te lo puoi figurare. Quando fummo in mezzo al nudo squallore della campagna romana, dove il Tevere sprovvisto di argini e di ripari, corre alla ventura per lo sconfinato piano come un torello scapestrato, e dove la vita animale è rappresentata soltanto da qualche sparpagliata mandra di bufali, su le cui groppe affossate s'appollaiano in cerca di cibo gli storni, o dal volo di una gazza che, lasciato il nido, fugge spaventata dal fischio della locomotiva, mi abbandonavo ad una folla di tristissime riflessioni, domandandomi se realmente mi accostavo alla Capitale d'uno de' più inciviliti regni di Europa o piuttosto ad una colonia da poco fondata nell'interno della Nuova Zelanda, quando uno di costoro si affacciò allo sportello del vagone. Mandò un grido d'all'arme e subito tutti si affollarono allo stesso sportello pestandomi pietosamente i piedi e scuotendomi negli occhi il tabacco dei loro fazzoletti, mentre gli sventolavano gridando: — Romà, Romà! — verso un pagliajo che avevano preso per la cupola del San Pietro. Risi in corpo di questa scena grottesca, e dell'osservazione che mi venne fatta in quel momento, cioè che tutte le pellegrine hanno la barba e gli uomini no; ma risi più che mai quando la cupola del San Pietro spuntò da vero svelta e maestosa sull'orizzonte sereno. La guardarono fissi per qualche tempo; stettero un pezzo a disputare, accennando verso la sua mole imponente e da ultimo, mentre m'aspettavo che scoppiassero in un _urrà_ di entusiastiche acclamazioni, li vidi invece tornarsene mogi mogi a sedere, senza dar segni di vita. — L'avevan presa per un pagliajo. LETTERA IV. Dove si parla dei quartieri de' poveri. Napoli, 14 maggio 1877. Quando, per la prima volta, mi dettero nell'occhio quelle numerose turbe di cenciosi vestiti del colore della lodola, che si confonde con quello del terreno, dentro al quale si svoltolano e che a migliaja sbucano alla sera dai loro tenebrosi vicoli, aggruppandosi agli sbocchi di quelli come mosche su gli usci d'una fabbrica di colla, grattandosi, spulciandosi e spidocchiandosi voluttuosamente, mi tornò alla memoria il verso del Belli: O come fa a magnà tutta 'sta ggente? A questa domanda avevo già trovata la risposta nell'osservare come un buon figlio della vecchia Partenope si lecchi ghiottamente le labbra, dopo aver desinato con un torzolo di cavolo o con un cesto di lattuga, senza pane, senz'olio, senza aceto e senza sale, e ringraziando mille volte la Provvidenza della grazia ricevuta. Ma volli aggiungere un'altra interrogazione, per conto mio, e la espressi formulandola per imitazione in un endecasillabo romanesco, chiedendomi: O dove va a dormi' tutta 'sta ggente? Non potendomi risponder subito, mi risposi ieri ingolfandomi attraverso allo squallore dei loro desolati quartieri. Se tu mi avessi visto partire per questa specie di viaggio, avresti pensato che io andassi per lo meno a scovare una masnada di briganti nel fondo di una foresta. Il vestito serrato dal primo all'ultimo bottone; sprovvisto di qualunque oggetto di valore, come sarebbero anelli, orologio, catena ec., il portafogli appena fornito di qualche franco, e la destra sull'impugnatura della rivoltella che mi pendeva dalla cintola, parevo addirittura una corazzata di casimirra inglese che si preparasse a toccarne. Guàrdati, m'era stato detto prima che venissi a Napoli, son luoghi pericolosi. Ed io mi guardai. Ora poi sono in grado di assicurarti che un pane di quattro libbre o una tascata di soldi sono le uniche armi, delle quali occorre provvedersi in simili congiunture, per aver poi tante benedizioni da volare in paradiso di punto in bianco, anche se un accidente ci levasse lì per lì da questo mondo, senza i conforti della religione. Rimbóccati i calzoni, túrati il naso e vieni con me. I vichi di quel gruppo di case addossate al colle del Pizzofalcone, che formano il quartiere di Santa Lucia, sono cinque, lunghi ciascuno in media una trentina di metri e larghi due, e in questi vichi si rintanano la sera dalle quindici alle venti mila persone, il qual numero equivale presso a poco alla popolazione di una grossa città di second'ordine. Le case che li fiancheggiano sono alte; la luce ci filtra appena attraverso alla enorme quantità di panni tesi ad asciugare, ed alla miriade di altri oggetti come reti, nasse, canne da pesca, zucche, staggi da bilance, cappotti attaccati a chiodi o spenzolati ai balconi, ingombrando le pareti da terra all'ultimo piano; l'aria non vi ha libera circolazione, perchè priva di sfondo dal lato della collina; il lastrico o non esiste, o è mal connesso, o non si vede, perchè nascosto sotto uno strato umido d'immondizie di ogni genere in putrefazione; l'aria è grave; il puzzo qualche volta insopportabile. Ieri volli levarmi la curiosità di fare una gita di _piacere_ là dentro e vidi quello che ti racconto. Appena messo il piede nel primo chiassuolo, credetti ad un tratto di assistere ad una scena diabolica del _Macbeth_ o della _Notte di Valpurga_. Una folla di spettri cominciò a sbucare da ogni parte come di sotto terra, e gesticolando e parlando tutti insieme con voci rauche, in una lingua che non intendevo, mi corsero incontro e mi si affollarono addosso. Il loro aspetto mi fece ribrezzo; mi tirai al muro e con un cenno risoluto feci loro intendere che si tirassero indietro. Intesero, e guardandomi stupidamente coi loro occhi infossati, si misero in disparte sbigottiti e confusi a guardarmi con stupida curiosità. Allora potei osservare tutta l'orrida realtà di quei fantasmi umani. Erano tutte donne e la maggior parte vecchie, magre e sparute come cadaveri. I loro visi non avevano fisonomia, o, per non dir troppo, l'avevano, ma quella della maschera, quella fisonomia fissa, su la quale non si riflette nessun sentimento dell'animo; fredda ed inerte appunto come le loro anime accasciate sotto il peso enorme della più squallida miseria. Molte erano ammalate d'occhi ed avevano la faccia deturpata da bolle schifose o da uno strato di lordume ributtante. La loro occupazione, in tempo che mi guardavano trasognate, come se fossi stato una bestia rara, consisteva nel tirarsi addosso, ora di qua ora di là, i lerci brandelli, di cui erano malamente coperte, o nel grattarsi accanitamente la testa ficcandosi con rabbia le unghie nei capelli infeltriti. Qualche donna giovine teneva al petto uno scheletrino umano che piangeva o succhiava smanioso a una mammella vuota e cascante. Soddisfatta la prima curiosità, fissai gli occhi addosso alla più oscena di quelle miserabili, la quale appena s'accorse d'esser presa di mira, smise di grattarsi e stese una mano d'Arpia verso di me. — Che vuoi? — le dissi. — Mi rispose facendomi il cenno della fame col girarsi in tondo davanti alla bocca il pollice e l'indice aperti. — Fammi vedere la tua casa e poi ti darò qualche cosa. — Fu come buttare polvere sul fuoco. Mi saltarono tutte addosso e, tira di qua, tira di là, ognuna mi voleva procurare lo stesso benefizio. — Signorino, venite a vedere la mia. — Venite con me, venite con me. — Io io: la mia, la mia. — Ora, ora, — badavo a dire io, — ora, ora; se darete tempo verrò da per tutto, ma non v'accostate tanto, per Dio! — E in quel mentre cercavo di schermirmi meglio che potevo, ma non bastò. Arrivato a casa potei accertarmi che i loro contatti non erano stati infecondi. Fatti pochi passi, la donna, alla quale avevo domandato della sua casa, si fermò davanti ad un'apertura tenebrosa, di cui l'affisso ed i pietrami cascavano a pezzi, e accennandola mi disse: — Servitevi, eccellenza. — Mi voltai a lei facendo un atto come per dirle: — Tu m'inganni. — Intese benissimo e insistè: — Servitevi, servitevi, passate nel mio _palazzo_. — Aveva anche il coraggio di scherzare! Entrai. Il suo palazzo consisteva in un'unica stanza, due scalini più bassa del terreno. L'impiantito era formato di terra umida e di sudiciume; il buio, fuorchè in prossimità dell'uscio, che lasciava passare la scarsa luce colata dall'alto, era assoluto; il puzzo che sbucava di là dentro non saprei dire di che fosse; era puzzo d'ogni cosa, e tanto acuto e tanto grave che durai fatica a vincere la nausea che mi buttava indietro. Se non avessi avuto fiammiferi, neanche con la fantasia del Dickens mi sarebbe stato possibile descrivere l'aspetto di quella sepoltura di vivi, tanta era l'oscurità che regnava là dentro. Ne accesi uno ed allora potei scorgere tutto il lusso asiatico del _palazzo_, nel quale era capitato. Il terreno era ingombro di lordure d'ogni genere; le pareti e il palco erano coperti di ragnateli e di una patina lucida e viscosa; la mobilia consisteva in qualche pietra che teneva il posto di seggiola rasente al muro ed in un pagliericcio color del terreno, steso in un canto. Una figura umana, rintanata nell'angolo più buio della stanza, mi dette nell'occhio. Le andai incontro per osservarla con passo lesto, perchè non vedevo l'ora d'uscire dal tanfo che mi levava il respiro, quando sentii partire da quel mucchio d'ossa e di sozzure una voce rantolosa che diceva qualche parola che non intesi. — Chi è? — domandai a quella donna che mi accompagnava. — _Vavama_ (la mia nonna) — mi rispose — che vi dice che gli avete scacciato le _zoccole_ (le talpe). — Guardai per terra e vidi infatti qua e là alcune talpe grasse bracate che sedute dignitosamente si lustravano le basette, aspettando che quest'importuno avesse loro levato l'incomodo. M'impostai per dare una pedata a quella che m'era più vicina, ma la vecchia mandò un grido fioco e disperato. — Che t'è seguito? — le domandai. — Non le scacciate, — mi rispose brontolando, — non le scacciate, son creature di Dio anche loro. — Ma come! E saresti proprio affezionata a quelle bestie? — Son trent'anni che ci ajutiamo fra noi, signorino. Date un soldo a questa povera vecchia, — e stese verso di me un braccio mummificato. In tempo che mettevo mano a tasca, la volli osservare. Era cieca da un occhio; la carne del suo viso e delle sue braccia era a squamme color del tabacco per una malattia della pelle; aveva una larga piaga in una gamba, che non le permetteva di camminare, onde senza muoversi dal sedile di pietra su cui stava da qualche giorno, faceva lì i suoi pasti luculliani e lì intorno deponeva i suoi escrementi. L'amicizia delle talpe non era tutta disinteressata. Non credere, amico mio, che ti racconti novelle. Ti scrivo, è vero, dalla Magna Grecia, ma la mia, lo sai per prova, non è — _græca fides_. — Su quel pagliericcio ammuffito veniva a dormire la sera il resto della famiglia, composta di otto persone. Due le avevo conosciute, le altre sei, quando io mi trovavo là dentro, erano per le vie di Napoli a _guadagnare_ la giornata. Gl'inquilini di questo maraviglioso locale pagano nove lire al mese! Eppure nessuno ancora si è dato per inteso di questa specie di crudele rapina! Appena ebbi messo qualche soldo nella mano della vecchia, cominciò un baccano diabolico nel gruppo di donne, che affollate mi stavano ad aspettare su la porta, per voler qualche cosa anch'esse. Uscii fuori inorridito, presi una larga boccata d'aria meno peggio e promettendo soldi a condizione, seguitai con le altre megere il disgustoso pellegrinaggio. Non starò a farti una descrizione particolareggiata di quello che vidi in appresso, per non allungar troppo questa lettera, ma per sommi capi cercherò di dartene una idea. In una specie di _fondaco_ che esiste nell'interno di questo vico, dove i piani terreni o _bassi_ sono tutti dello stesso genere di quello che ti ho descritto, volli salire ad un primo piano e per una scoscesa gradinata che molti anni addietro deve esser sembrata una scala, capitai in un vespaio di altre spelonche fetide e buje. Traballando ora per gli avvallamenti dell'impiantito, ora per aver inciampato in un monte di spazzatura, in uno de' soliti pagliericci stesi per terra, feci un giro alla lesta, perchè il tanfo e il caldo umido mandato dai corpi d'una moltitudine d'infelici che languivano là dentro, era insopportabile. Nel fondo d'uno di questi antri mi arrivò al core una voce fioca e lamentevole. Cercai con gli occhi nell'oscurità, ma non potei scorgere l'infelice che la mandava. Domandai allora di che si trattasse. Mi fu risposto: — È una povera partoriente che chiede la vostra carità. — Sola! — osservai. — No, guardate, ci stanno d'appresso due comari. — Mi fecero premura perchè la vedessi, ma con qualche scusa potei scansare quella vista dolorosa. Domandai soltanto se fra quelle donne che l'assistevano v'era la levatrice, ma non intesero nemmeno il vocabolo. In un'altra stanza trovai un bambino di tre in quattro anni addormentato sopra un mucchio di spazzatura. Mi chinai ad osservarlo alla luce d'un fiammifero, e vidi che aveva le gote nere affatto dalle cimici; i capelli poi si muovevano addirittura sotto il brulichìo di altri insetti. Fui scosso tanto dolorosamente da quella vista che, vinta ogni repugnanza, mi chinai e con una mano mi misi a pulirgli le gote. La madre, che fino allora io non aveva saputo qual fosse, in mezzo all'orrida tregenda che mi faceva ala e corteggio, mi si avventò furibonda al braccio, gridando come una cornacchia e me lo tirò indietro. Io m'alzai indispettito e la guardai arcigno. Essa mi ficcò in viso due occhi che schizzavano faville di rabbia, e alzando i pugni in aria di minaccia, mi disse, digrignando i denti e tremando di rabbia, che non toccassi la sua creatura. Alcune donne del gruppo ed un vecchio che avevano capito la mia intenzione, furono subito intorno a noi, cercando persuaderla, ma su le prime non fu possibile farle intender ragione; seguitò a guardarmi inferocita ed a gridare che non toccassi la sua creatura. Allora nacque un bisbiglio diabolicamente animato. Chi la riprendeva per me, chi per lei. Io pure m'adopravo a dire le mie ragioni, ma predicavo al deserto, perchè non ero inteso; ma finalmente le vidi ammansire la collera e, dopo poco, accostossi a me raumiliata, quasi a chiedermi scusa, pregandomi però di non toccare il suo figlio, perchè aveva la febbre e appena desto, si sarebbe messo a strillare. Io cedei volentieri alle sue preghiere, e feci le viste di credere a quanto mi diceva, ma dalla scena violenta che aveva avuto luogo senza un motivo plausibile e dalla paurosa diffidenza, con la quale seguitò a guardarmi, non mi ci volle molto per capire che il timore della jettatura avea suscitato quel disgustoso parapiglia. Che impasto orrendo di stupidità, d'amore e di ferocia! Visitai anche gli altri chiassuoli e da per tutto lo stesso umido, lo stesso fetore, la stessa nuda miseria. Una vecchia che stava seduta come un orso spelèo su la soglia della sua tana, rosicando una lisca di pesce, raccattata poco fa fra i rigetti d'un'osteria, fermò la mia attenzione e le chiesi di visitare il suo appartamento. Sul principio mostrò diffidenza e restò un pezzo a darmi risposte evasive, squadrandomi sospettosa da capo a piedi. Ma finalmente, persuasa dalle mie dolci compagne, mi fece segno che passassi. Il suo letto era una vecchia imposta d'uscio su due seggiole sconquassate. Finsi di non credere che essa dormisse lì sopra e intanto, ricordandomi della nostra comune amica signora X, la quale stette tre notti intere senza chiuder occhio, perchè il tappezziere tardò a riportarle il suo letto di piuma con le molle che aveva preso ad accomodare, sentii un sorriso doloroso passarmi su la faccia. Alla vecchia non sfuggì il mio sorriso che credè fatto per sè. Allora per darmi una prova evidente di quanto mi asseriva, distese sopra all'imposta qualche straccio che andava raccattando qua e là per la stanza, ed una stuoja di giunchi ridotta in brani, e quando ebbe tutto disposto, giurandomi su la Madonna che quello era il suo letto, e stendendo le braccia verso un immagine che pendeva irriconoscibile ad una parete, vi si sdrajò supina, mandando un _Oooh!_ lungo lungo di compiacenza. Quando fu scesa mi disse che provassi a sdraiarmivi anch'io, ripetendomi che non vi si stava poi tanto male, quanto pareva che io mi fossi immaginato. Come puoi credere, non feci altre osservazioni in contrario, anzi per liberarmi dalla terribile prova, convenni addirittura che per lo meno nell'estate doveva essere una fortuna l'avere un letto così ventilato e salubre. E a lei non balenò neanche l'idea che io scherzassi, perchè indicandomi un spazio libero in terra, in mezzo a due letti che erano in fondo alla stanza, mi disse: — Guardate, signorino, chi starà peggio di me stanotte! — E mi raccontò che essa, con gli altri quattordici inquilini della stanza, faceva la carità ad una vedova che rimasta sul lastrico per la morte del marito, sarebbe venuta per qualche tempo a dormire lì sul terreno nudo coi suoi cinque figlioli, il maggiore dei quali aveva dodici anni. Non rifiatai; la vecchia aveva ragione. Eh, Dio mio! Ma se volessi seguitare a raccontarti di questi graziosi episodj non la finirei più. In un sottoscala, al solito buio, trovai una giovinetta orfana di circa sedici anni, che preparava il desinare per sei fratellini e sorelline tutti minori a lei. Questo desinare si componeva di _ventidue_ chiocciole che bollivano in una pentola sbocconcellata, e di altrettante castagne secche che aveva date a rinvenire ad una sua vicina, perchè a lei mancava un recipiente qualunque per fare quella operazione. I sette fratelli e sorelle dormivano sopra un pagliericcio tanto corto e tanto stretto (non dico tanto lercio, perchè si sa) che appena due esili persone ci sarebbero potute entrare rannicchiandosi. Come avranno fatto a entrarvi tutti? Non lo so. E le conseguenze di questo guazzabuglio mascolino e femminino? Maestro Raffaele, non te ne incaricà. Eh! ma n'ho viste anche delle peggio, e di queste ti parlerò a voce al mio ritorno. Ho visitato anche la famosa grotta alle Rampe di Brancaccio. È una caverna, divisa in quattro o cinque ambienti, tutti in comunicazione fra loro, scavata nel tufo della collina. È una specie di caverna ossifera; una tana da coccodrilli, dove una iena morirebbe di puzzo e di paura. Eppure anche là dentro, accatastate alla rinfusa, fra le tenebre rotte soltanto qua e là da due o tre aperture, mi pare, e non più, tra 'l puzzo de' cessi aperti a capo dei letti, e l'umidità che cola dalle pareti, languiscono quaranta famiglie composte di circa dugento individui, che hanno il coraggio di sorridere e di scherzare. Vi fu un giovinotto, il quale conducendomi attraverso ad una quarantina di letti divisi fra loro da cenci d'ogni colore distesi su corde, volle menarmi in ogni modo a vedere quella ch'ei chiamava la sua _galleria_, cioè il ramo di caverna, dove aveva il suo letto, e seguitò a scherzare chiedendomi scusa se non apriva «le finestre che non v'erano.» Una cosa sola mi fece maraviglia là dentro, e fu di non trovare che un solo malato, un povero operajo d'un grado un po' superiore ai suoi rumorosi coinquilini, il quale vergognandosi di me, stette sempre rannicchiato nel suo canile, nascondendosi la faccia fra le mani. Ma se avessi avuto almeno il gusto di sentirmi dire una insolenza, di sentirmi lanciare un insulto su la mia faccia di salute o su i miei abiti decenti, sarei escito di là dentro meno disgustato. Ma nulla! Eccellenze e riverenze e atti d'umiltà indecorosa da ogni parte; nulla che mi facesse intendere che erano uomini anch'essi. E tale l'abbattimento fisico e morale di questi infelici, che non sanno comprendere, nonchè aspirare ad un miglioramento qualunque delle loro misere condizioni. L'abitudine di vivere in quello stato è così profondamente radicata fra loro che, anche arrivando o col lavoro o con la camorra a conseguire i mezzi per liberarsene, non lo fanno. Jeri visitai anche i centri del Pendino e del Porto, l'Imbrecciata ed altri simili letamai, e da per tutto le stesse delizie: bujo, fetore, umido, cessi rotti, fogne traboccanti, erpeti, oftalmie, piaghe, tigna, glandule ed altre gioie dell'umanità su larghissima scala in mezzo alle quali, non un numero ristretto, ma migliaja e migliaja di tribolati, come animali immondi, languiscono in silenzio ed in silenzio muojono, rassegnati alla sorte che la società ha voluto loro serbare. Vidi un giovinetto, al quale mancava un occhio che gli avevan mangiato le talpe da piccolo. In un'altra stalla umana che trovai, non mi rammento in quale altro quartiere, ma mi pare di certo nel Vico Grotta a Santa Lucia, mi fu raccontato che circa quattro anni fa una madre, dopo aver lasciato solo per qualche ora un suo figliolino in fasce, lo trovò ammazzato da queste stesse talpe, che gli avevan rosicato il naso e le labbra. A te farà ribrezzo e maraviglia il sentir dire di queste cose; a me, sì, fa ribrezzo, ma in quanto a maraviglia, neanche per ombra. La maraviglia dopo aver visto di che si tratta, la provo soltanto nel pensare come di questi fatti non se ne ripetano in maggior quantità, e come non nasca una pestilenza o una lebbra da infettare anche i pipistrelli, che a mezzo giorno svolazzano là dentro ingannati come in pieno crepuscolo. Ma dunque, tu mi domanderai, non ci sono ricoveri, non ci sono case ospitaliere? Sicuro che ci sono! ma quando tu le avessi viste, capiresti come la maggior parte di quelle non siano tali da invogliar troppo i miserabili, e come alcune poi non valgano da vero la libertà che rimane a questi disgraziati, di potere almeno sguazzare nel sudiciume natìo senza rimanere obbligati a nessuno, o crepare di stento a loro comodo, per andarsene dopo a battere in pace l'ultima capata nelle cisterne del Camposanto Vecchio. Ci sono anche le case da operai. Sicuro che ci sono! Ne fu costruito un gruppo assai grosso sulle altura di Capodimonte, ma quando furon finite, parvero tanto belle anche agl'intraprenditori di quel lavoro, che crederon bene d'andar essi ad alloggiarvi. Ma dunque nessuno, proprio nessuno s'occupa di questa inezia? Questo non saprei dirtelo; so che intanto si fanno molti e graziosi giardinetti lungo la marina; so che si profondono candelabri a gas dove non ve n'era assolutamente bisogno; e allora vedrai che qualche cosa scapperà fuori, giacchè quando si vede molto fumo per la casa, si può star certi che un po' d'arrosto, o prima o poi, comparirà anche in tavola. L'unico essere, il quale s'occupi sul serio della questione e che provveda instancabilmente abiti nell'inverno, medicamenti e disinfettanti nelle altre stagioni, e cure e carezze di ogni maniera, con quell'amore, con quell'affetto disinteressato che qualifica il vero filantropo, è questo Sole; Lui! questo meraviglioso assessore d'igiene, che da tanti secoli brilla benefico su le miserie dell'umanità, senza aver ancora trovato un cane che vi soffi e lo spenga. LETTERA V. Dove si parla della festa di Montevergine. Napoli, 21 maggio 1877. Una di queste mattine, avanti giorno, fui destato in sussulto da una forte botta d'arme da fuoco esplosa a pochi passi dalla mia casa. Mi alzai sul letto; stetti un po' in orecchi.... silenzio perfetto. Un suicidio! pensai, e il cuore mi batteva forte forte, immaginandomi la vittima là, in mezzo alla via, boccheggiante nel proprio sangue. Che faccio? mi vesto? vado alla finestra? corro nella via? e intanto rimanevo inchiodato sul letto a pensare. Chi sa? qualche amore sfortunato.... qualche cambiale in scadenza.... qualche.... Un altro colpo sparato proprio sotto la mia finestra, mi fece fare uno schizzo che mi alzò un palmo su la materassa. Due omicidj! e nel tempo stesso udii dei passi accelerati nella via che nel momento mi fecero credere ad una aggressione, ma il non aver udito nessun grido, nessun lamento.... Un altro scoppio più forte dei primi! Oh! tre omicidj poi a quest'ora mi cominciavano a parere un po' troppi! Ma pure tante esplosioni in così breve spazio di tempo, a quest'ora.... Mi parve sentire qualche leggiero rumore nella camera accanto, dove dormiva la mia padrona, e chiamai: — Donna Maria? — Donna Maria, avendo supposto la ragione della mia chiamata, dètte in un solenne scoppio di risa e mi domandò: — Avete avuto paura? — Sì; o che è stato? — Fanno allegria per la festa di Montevergine, non temete di nulla. — Montevergine.... Montevergine! Non occorse che mi dicesse altro. Avevo tanto parlato e sentito parlare di questa festa e tante volte avevo fatto proponimento di andarvi, che pochi minuti dopo ero al tavolino con la candela accesa davanti, l'orologio da una parte, l'orario delle strade ferrate dall'altra e il lunario nel mezzo facendo studj comparativi, dei quali ognuno può intendere facilmente la profonda gravità. Erano le 4; il treno per Laura ed Avellino partiva alle 5¼, un po' di colazione trovando un caffè aperto bisognava farla in tutti i modi, dunque non c'era tempo da perdere. — Che vi levate già? — mi domandò la padrona, sentendomi romicciare per la camera. — Vado a Montevergine, Donna Maria. — Fate bene; Dio v'accompagni. — V'occorre nulla di lassù? — Dite una _Salve Regina_ anche per me a quella bella Madonna. — Fate conto d'avergliela già detta da voi. — Dio ve ne renda merito. — Addio, Donna Maria. — _Stateve buono._ — E mi sbacchiai dietro l'uscio di casa. Posta a guisa di sella su la groppa di una montagna a sei chilometri circa da Avellino è la pittoresca borgata di Mercogliano notabile anche storicamente per il doloroso ricordo dell'eccidio che lassù fu commesso nel 1799 di un drappello di soldati dell'infelice Championnet, dei quali si trovano anche ora le misere ossa scavando negli orti del villaggio, e per la morte che vi trovarono nel 1821 gli ufficiali napoletani Morelli e Silvati, i quali, essendo corsi con la loro truppa a dar man forte ai Carbonari colà riuniti, furono presi dopo un breve combattimento e fucilati all'istante su la piazza che ora porta i loro nomi onorati. Ah! quanto sangue è costata questa Italia alla canaglia, perchè se la godessero poi le persone per bene! ma lasciamo correre e diciamo piuttosto che la Badia di Montevergine, la quale sta sopra a Mercogliano in vetta ad un picco di granito, ha pure una storia ed una leggenda assai degne di nota. Di lassù, dall'antico _Mons Virgilianus_, dove nei tempi pagani sorgeva un tempio a Cibele ridotto poi a chiesa cristiana, fu nell'anno 1497 portato in Napoli il corpo di San Gennaro, che dal cardinale Caraffa venne poi proclamato protettore della città, facendolo succedere così con la sua boccetta di sangue a Virgilio mago, ed all'altra boccetta di Porta Capuana tenuta fino a quel tempo come il palladio della città. Nella chiesa di Montevergine trovansi ora esposti all'adorazione: una immagine bizantina di Madonna dipinta, come dicono, da San Luca ed il braccio col quale il santo la dipinse, portativi nel 1310 da Caterina II di Valois, reduce da Costantinopoli, che ivi è sepolta con suo figlio. Questo è il Montevergine, verso il quale io m'incamminai tutto allegro e curioso e dove per tre giorni consecutivi accorrono ogni anno con sfarzo clamoroso di cavalli, di veicoli, di vesti, di provvisioni da bocca e, se vogliamo, anche di devozione, venti o trentamila popolani grassi di Napoli. Arrivato ad Avellino, dopo avere attraversato allegre e feraci campagne, coperte d'una vegetazione quasi tropicale e dove, in mezzo ad una fantasmagoria di quadri uno più dell'altro pittoresco, altro non sentivo mancarmi che il mare ed il Vesuvio, presi appena tempo per dare una occhiata alla graziosa città, perchè il tempo minacciava un po' d'ogni cosa, con apparato solenne di vento, fulmini e tuoni, e insaccatomi solo in una discreta carrozzella, pronunziai al vetturino la magica parola, per la quale da un'ora mi seguiva a passo a passo come la mia ombra: — a Mercogliano! — D'Avellino non posso dirti quasi nulla, perchè ebbi appena il tempo di girarla a corsa per non correre il pericolo di trovarmivi imprigionato dal pessimo tempo. È una piccola, ma ridente città, che sorge in mezzo ad un ubertoso altipiano incassato fra montagne scoscese e severe. Il vino vi è buono, l'aria eccellente, le strade ariose e assai bene selciate; il clima mite e gli abitanti non lo so. Vi sono due belle piazze, qualche monumento ed un magnifico viale alberato che serve come pubblico passeggio, e per il quale il mio Automedonte si slanciò a trotto precipitoso per arrivare, se era possibile, a Mercogliano prima della burrasca che verso sera ci rincorreva brontolante e minacciosa. — Hai un gran bravo cavallo! — Eccellente introduzione per cattivarsi l'animo d'un vetturino, quando si vuole attaccar discorso. Mi accennò di sì con un sorriso angelico e con un dolce movimento della testa. Avendo così di volo sentito dire della ruggine che esisteva fra Mercoglianesi ed Avellinesi, volli tastare il mio egregio Febo, per passare meno peggio il tempo e: — E tu sei d'Avellino? gli dissi. — Credei ad un tratto d'avergli domandato: — Siete voi cristiano? — perchè a bruciapelo mi rispose un — Per grazia di Dio — da buttarmi in terra. Ah! è inutile: se hai bisogno di dieci campanili, sbuzza dieci Italiani e gli avrai subito con le campane e tutto. — E Mercogliano, dimmi, è veramente un bel paese? — — Lo vedrete. — Ma a te piace, vi staresti volentieri? — Io! — Ma quell'_io_ lo disse con un movimento tanto energico di tutta la persona, che la cuspide del campanile gli deve aver battuto di certo nel palato. Così seguitammo un pezzetto a parlare di varie cose e stetti con grande attenzione ad ascoltare i suoi racconti, dei quali il più bizzarro mi parve la storia di un certo santo, di cui ho dimenticato il nome e che, _temporibus illis_, fu dai Mercoglianesi rubato a quelli d'Avellino per gelosia de' gran miracoli che faceva. Ma l'onesto taumaturgo, per mostrare il suo sdegno a coloro che avevan commesso il sacrilego ratto, seppe rifiutarsi con tale insistenza alle preghiere de' suoi nuovi devoti, che finalmente i poveri Mercoglianesi, inaspriti fino al trabocco, lo rimandaron via _ipso facto_, fra i fischi e le sassate della plebaglia, che lo rincorse facendogli dietro la bajata. — Ma l'originalità della nostra conversazione giunse al colmo, quando il mio nobile auriga mi si confessò di punto in bianco ateo. Ateo! Ah! come me la godo, come me la godo! o di dove diavolo è scaturito questo Lucrezio a cassetta? Ma un ateo tutto d'un pezzo con la frusta in mano mi pareva impossibile, ed infatti, dagli, picchia e mena, fruga di qua, fruga di là, ed ajutato dai primi goccioloni e da una razzaia di saette che cominciò a serpeggiarci su la testa e d'intorno, la magagna la trovai, facendogli confessare che per San Modestino, quel santo medesimo che fu scacciato tanto brutalmente da Mercogliano, ora me ne rammento, aveva una devozione speciale. — Per lui solo, veh! — Ah! s'intende bene, — risposi io; e intanto che l'uragano ci pigliava nel mezzo, lo vedevo trinciare segni di croce e scappellature, bada davanti, ad ogni saetta che guizzava come una lingua d'aspide intorno alla sua persona sacrilega. — Ah! sciagurato, che cosa hai fatto! — Che ho fatto? — Guarda come siamo conciati per colpa tua! guarda che grandine su i raccolti di questi poveri cafoni che avrebbero ragione di mangiarti il core se sapessero.... — Ah! Madonna, Madonna santissima di Montevergine! — Che è stato? — Una saetta aveva picchiato proprio in un albero alla distanza d'una ventina di passi davanti a noi. Il cavallo s'era fermato a secco, il mio egregio ateo era sceso da cassetta con un gran lancio ed era venuto a rifugiarsi sotto il mantice accanto a me, tutto tremante dalla paura e masticando giaculatorie precipitosamente. — E ora seguiterai sempre a non credere in nulla? neanche in quest'acqua che pare il diluvio universale? — Credo in ogni cosa, signore, credo in ogni cosa. — E allora come mai dianzi ti vantavi tanto? — Si fa per dire, signore, si fa per dire. — E il mio egregio ateo, modificato sotto l'azione del fulmine e ridotto ozono credente da ossigeno ateo che era, mi raccontò che novantanove per cento la causa di quell'uragano era qualche birbante che aveva portato seco della carne a Montevergine. — Come, come! a portar carne a Montevergine...? — Sì signore, a portar carne lassù, viene la tempesta. — E ci credi? — Signore, è la verità! — Sei un eroe! e giacchè è smesso di piover forte, torna al tuo posto e andiamo, chè non voglio far notte per la strada; animo! — E il buon Lucrezio tornò mogio mogio a cassetta, tutto tremante, seminando i frasconi fradici come uno zimbello cascato nel beriòlo. Arrivammo sani e salvi a Mercogliano che il cielo s'era rifatto tutto sereno, e dopo avere attraversato il paese per quasi tutta la sua lunghezza, in mezzo ad una enorme folla impillaccherata dai piedi alle punte dei capelli, giunsi alla casa dei miei ospiti, dove fui ricevuto in un modo per me anche troppo lusinghiero. Queste eccellenti persone che non mi conoscevano nè punto nè poco, appena ebbi loro mostrato un piccolo talismano in forma di biglietto di presentazione, mi accolsero con quella ospitalità larga, piena e spontanea, la quale, almeno per noi persone civili, è diventala ormai qualche cosa che va cercata come il fungo porcino: O ne' boschi o nulla. — Fate il vostro comodo, signore, e finchè vi piacerà trattenervi con noi, sarete parte della nostra famiglia. — Così mi disse il capo di casa, lasciandomi su la soglia della cameretta che mi aveva destinata. — Io conservo di queste care persone il più affettuoso ricordo. — La vetta dell'Appennino, sulla quale è situata l'Abbazia di Montevergine, era l'unico mio scopo, ma fino alla mattina dipoi non mi era possibile andare, essendo già vicina la notte. Mostrai allora desiderio di scendere in paese ed infatti accompagnato da' miei buoni ospiti, me n'andai a dare una occhiata al grosso villaggio di Mercogliano e ad ammirare la folla, che tumultuando per le vie e crapulando per le case e per le bettole, si preparava umanamente allo spirituale viaggio. Il trambusto che regnava allora nell'unica via lunga, storta e scoscesa, era spaventoso. A molte finestre sventolavano bandiere con immagini di santi, iscrizioni e rabeschi, le quali indicavano sfida alla folla da parte dei così detti poeti improvvisatori, dei quali ogni decorosa comitiva ha il dovere di portar seco almeno uno da Napoli, perchè canti le lodi delle sue donne e de' suoi cavalli, e perchè descriva le avventure della gita, e le scarrierate e le strippate fatte lungo la via, difendendosi poi dagli attacchi di chi negasse la verità di quanto egli va cantando. Alcuni di questi poeti, seduti sui davanzali delle finestre, con le gambe spenzolate, il viso acceso e il bicchiere alla mano, erano già alle prese con la marmaglia, la quale applaudendoli se arguti, o fischiandoli se sciocchi, berciava dalla via e smanacciava alternativamente e senza riposo. E in mezzo a tutto quel frastuono, non un suono piacevole, non una voce simpatica, un'armonia di strumento gradito che rallegrasse gli echi della pittoresca montagna! Rumore, rumore, eppoi rumore, e in mezzo a questo rumore: insegne di venditori, cartelloni di saltimbanchi, tele dipinte di cantastorie, tende su i carri, bastoni forcuti, pali e mille altri arzigogoli si vedevano correre ed agitarsi al vento sopra la folla. E tutto questo quadro fantastico nuotava in un ambiente di fumo denso denso, che portato giù dai camini dal vento temporalesco, o sollevandosi dalle padelle strepitanti dei numerosi friggitori occupati per la via, avviluppava la salvatica scena dentro un folto velo di puzzolente caligine. I lati dell'unica strada erano, alla lettera, assiepati di vetture d'ogni genere, di cavalli, di muli e di somari, che la ristrettezza dei locali non permetteva di mettere al coperto, formando due lunghe file interrotte soltanto dinanzi ai banchi di venditori di zoccoli, immagini di santi, banderuole, rami di abete, penne colorate, secchioli di legno ed altri fronzoli, tutti oggetti aventi un significato attinente alla solennità festeggiata e dei quali ogni fedele faceva acquisto, per ascendere alla sacra montagna e per riportarli poi a Napoli come ricordi del compiuto pellegrinaggio. Fra le due file di veicoli e di banchi, restava libero uno spazio di strada capace appena di dar passaggio ad una carrozza, ed in questo spazio circolava a stento la folla compatta ed ululante. Eppure ad ogni momento un veicolo tirato da focosi cavalli carichi di penne, di campanelli e di nastri, animati dalle grida e dagli scoppi di frusta d'un ossesso guidatore, andando alla carriera come nella strada più spaziosa e solitaria, passava turbinando. Un eccidio di gambe e di costole pareva imminente, ma tutti sapevano tanto ingegnosamente badarsi, che la furibonda meteora passava senza intoppi disastrosi e l'allegro vocìo non era interrotto per nulla, anzi in quei momenti era fatto più festoso e maggiore dalle acclamazioni entusiastiche e dagli evviva ai nuovi arrivati. Un chirurgo vi avrebbe fatto la figura di Tantalo. Giudico che l'egoismo di questa gente debba essere il gran talismano che li preserva dai pericoli. Ognuno pensa tanto alla propria salute e tanto poco a quella degli altri, che ne resultano gl'identici effetti, come se ognuno, senza badare alla propria, cercasse soltanto la salute altrui. Quando il resultato finale torna, anche se il problema è impostato male, accettiamolo e cantiamo le Lodi della Provvidenza. Portato in collo piuttosto che camminando, mi trovai in fondo al paese a respirare un po' liberamente sopra un piazzale erboso, presso al quale mi fu indicato il punto della via che viene da Napoli e dove qualche anno addietro, durante il tempo della festa, stavano sedute non rammento se due o più persone incaricate di aggiudicare un premio d'onore all'equipaggio che meglio di tutti e più riccamente compariva addobbato, o al guidatore che faceva il suo ingresso nel paese, percorrendo a carriera la lunga e ripida salita che lo precede. Chi mi faceva il racconto di questa particolarità, deplorava che tale cerimonia fosse andata in disuso, tanto più che era divertentissimo, mi diceva, il vedere ogni tanto qualche cavallo che spossato dall'eccessivo strapazzo, appena arrivato, cadeva morto attraverso alla via — Che peccato che una così _graziosa_ usanza sia stata dimenticata! — dissi al mio nuovo amico, e la mia nobile esclamazione commosse dolcissimamente quelli che l'ascoltarono. In fondo a questa piazza si trova la chiesa parrocchiale, un edifizio qualunque che non richiamò la mia attenzione altro che per il tumulto che faceva il popolo davanti alla sua porta. Non avendo potuto incontrare ancora nulla che mi facesse accorgere di trovarmi in mezzo ad una radunata di popolo che si preparava a festeggiare una solennità sacra, fui contentissimo di quella vista e m'incamminai pieno di curiosità verso quella parte. A rischio di farmi stroncare le costole, potei penetrarvi. Se hai visto far la ruffa ai ragazzi, quando qualche vigliacca creatura si diverte a buttar loro soldi nella via, ti sarà meno difficile farti una idea della pietosa gazzarra che si faceva là dentro dai fedeli lottatori. Dico lottatori, perchè una vera lotta sostenuta a suon di gomitate, pettate e spallate, si faceva presso un piccolo getto d'acqua che scaturiva da una cannella posta in un pilastro della navata a sinistra di chi entra. La montagna rocciosa che sta a ridosso di Mercogliano fa sì che questo paese sia ricchissimo di limpide sorgenti, che da ogni parte zampillano fresche e salubri, senza avere però altra virtù che quella di calmare l'arsura agli assetati, ma quella lì aveva tali pregi particolari, da giustificare tutto il fracasso che si faceva intorno a lei, per abbeverarsi al suo preziosissimo getto. Questa sorgente scaturisce da un ginocchio di San.... non me ne ricordo, onde, dopo essersi imbevuta di quella portentosa sinovia ed aver filtrato attraversando fra osso e osso la rotula del pazientissimo taumaturgo, sbuca da una cannella di rame e quella che non va dispersa giù per i fossati del monte, a benefizio dei ranocchi e delle bucataje, entra negli stomachi dei fedeli e mescolandosi ai polli mal digeriti, ha la modesta virtù di risanare tutte le malattie e credo qualchedun'altra. Il popolo che lo sa, non scherza: venti o venticinquemila persone, fra sane e ammalate, si avventano in tre giorni ad annacquare il vino bevuto all'unico bugliolo di rame che è incatenato presso alla cannella. Ridono d'Esculapio, bevono e si inoculano fra loro erpeti, rogna, ulceri ed altre giocondità della vita; chi è sano torna spesso infetto di lue, chi l'aveva già, se l'aggrava per lo strapazzo; cantano le lodi dell'acqua miracolosa e si rubano tra loro gli orologi; inneggiano al ginocchio portentoso, tutti lasciano una elemosina e finalmente, pesti e macolati, escono soddisfatti come uscii io: essi per continuare il baccanale per le vie del paese, io per andare a bere e dopo a riposarmi fra i profumi di giaggiolo esalati dalle lenzuola di bucato, che i buoni ospiti miei avevano fatto distendere sul morbido letto che m'aspettava. Ma per gran parte della nottata non mi fu possibile chiudere occhio, a causa del frastuono diabolico che si faceva in paese. Poco dopo la mezzanotte però si fece silenzio assoluto e m'addormentai; ma fu breve il mio riposo, perchè alle tre della mattina si levò di nuovo e più tormentoso il rumore della folla. Trovando allora inutile il mantenere la mia posizione orizzontale, saltai dal letto, apersi la finestra e guardai la campagna. Lo spettacolo che mi si presentò dinanzi era de' più solenni. Il bujo era sempre folto; uno strato di nuvoloni neri neri ingombrava il cielo, appoggiandosi sulle più alte groppe delle montagne; giù da ponente l'aria era infuocata dai fulmini d'un temporale che si avanzava lucente come una massa di fosforo in fiamme, e illuminata dalla sua luce violetta, la turba di già incamminata per la cima della montagna, portando torcie accese e fastelli di paglia e di piante resinose infilzate su la cima di pertiche, si allungava fino alla vetta della montagna in lunghe spire luminose che, risaltando fra le tenebre, prendeva l'aspetto di un enorme serpente di fuoco che lento lento si divincolasse strisciando su per i suoi bruni dirupi. Non potei resistere alla tentazione e scesi nella via; mi fu facile noleggiar subito un Pegaso ragliante e mossi anch'io per il disagevole pellegrinaggio. Fin verso alla metà del cammino, la passeggiata fu piacevolissima; la burrasca che si era presentata tanto minacciosa, era andata a sfogarsi attraverso alle gole di altre montagne; i nuvoli sul far del giorno si erano diradati, ed ogni tanto il sole di primavera si affacciava giallo e sorridente a sferzare le nostre groppe irrigidite dalla sizza umida della notte. — Il cicaleggio della folla era piacevole; alcuni gruppi di insaziabili s'erano già accoccolati all'ombra degli ultimi castagni o a ridosso delle rupi ed arruotavano il dente su gli avanzi delle loro provviste, mentre altri, affollandosi intorno a capanne erette provvisoriamente dai pastori lungo la via, bevevano bicchieri di latte freschissimo o mangiavano ricotte e giuncate distese sul pane. Qualche rado lamento o qualche spasimoso — ahi! — messo da malati che seguivano la folla o da poveri infelici che per voto fatto salivano scalzi, ferendosi malamente i piedi sulle punte acute dei macigni, rompeva di tanto in tanto l'allegro mormorio dei pellegrini, ma rimaneva presto soffocato dalle grida festose e dalle sonore risate delle allegre comitive, che raccontandosi fra loro piacevoli storie, ingannavano la fatica della via. La scena cambiò malamente all'improvviso. Con quella rapidità con cui sogliono addensarsi i vapori su le montagne, il cielo si oscurò ad un tratto dietro un nuvolone che, rammulinandosi vorticosamente, anneriva e gonfiava minaccioso; alla tepida brezza tenne dietro un vento frigido e impetuoso; una batteria di fulmini accompagnata da scoppi formidabili, cominciò a bersagliare le punte che ci stavano d'intorno, e un vero diluvio d'acqua e di grandine si scaricò su le nostre misere pelli. Uno scompiglio generale tenne dietro alla furiosa bufera; chi correva di là, chi di qua in cerca d'un riparo qualunque, ma ripari non ve ne erano, perchè l'ultima zona della montagna è affatto calva di vegetazione. Ogni palmo di terreno riparato dalla sporgenza di una rupe è preso d'assalto; grida e pianti si alzano commoventi intorno a quel derisorio riparo e tra la fradicia moltitudine che vi si affolla, fanno senso di pietà alcune povere donne, che coi loro bambini in collo si raccomandano o imprecano, mostrando le loro pallide creature tremanti e spaurite. Una capanna assalita con furore, non potendo contenere la moltitudine che vi si è riparata, scoppia dai fianchi e manda fuori uomini ed urli; alcuni inginocchiati in mezzo alla via, pregano e singhiozzano tenendosi il capo fra le mani, ed altri caduti si lamentano e chiedono pietà alla Madonna, tendendo le braccia verso il santuario. Era una scena di vera desolazione, una scena capace di dare idea esattissima di quelli strazi efferati, ai quali dovettero soggiacere tornando di Russia le misere mandre umane del Primo Napoleone. Vi furon momenti di un tale scompiglio doloroso e in cui provai tanta pietà dei vecchi, dei poveri bambini e degli ammalati che, quantunque grondante acqua e intirizzito dal freddo, sentii amaramente il dolore di non poter soccorrere altri che una miserabile vecchia, la quale scalza e febbricitante si era impegnata sola alla disastrosa ascensione, facendola sedere sotto la pancia del mio somaro. Ma pure non mancarono le scene comiche in mezzo a questa alpina tragedia. Un gruppo di persone credendo d'essersi poste al sicuro in una cavità del terreno, senza pensare che appunto era stata scavata dalle acque d'un rigagnolo che andavano a sbacchiarvi in tempo di pioggia, si smascellavano dalle risa canzonando quelli rimasti di fuori, quando il rigagnolo, gonfiato a un tratto, scaricò addosso a que' disgraziati una cateratta di broda color cioccolata, conciandoli in modo da far pietà, fra le risate grandissime e i fischi dei reprobi che non ammessi dentro al provvidenziale riparo, erano rimasti fino allora a supplicare smaniosi inutilmente. Un individuo che a pochi passi da me s'era riparato sotto il ventre del suo cavallo, dove se ne stava fumando voluttuosamente la pipa e ridendo evangelicamente delle sofferenze del prossimo suo, ebbe una doccia animale così improvvisa che insiem con la pipa, si trovò spento il riso su le labbra che restarono mute ad un tratto, sotto l'abbondante lavacro che la più tepida delle Ninfe si compiacque somministrargli sapientissimamente. Le cadute poi di quelli che fuggivano, e le inzaccherature in mezzo a quel motriglio quasi nero, a volte erano tali da fare slogar le mascelle al fradicio spettatore. Fra queste fu prodigiosa quella di una donna che scivolando, cadde supina e rimase impaniata con le spalle nella mota della via; incominciò a strillare sgambettando e berciando, mentre il vento indiscreto le portò sulla faccia le sottane, lasciandole allo scoperto.... le tracce di chi sa quante altre cadute! Alla pioggia d'acqua tenne dietro una bufera di neve. Allora, alla peggio, si riordinò la sgominata processione, e coi vestiti e le idee ciondoloni come salci piangenti umani, riprendemmo tutti il cammino in silenzio. A mano a mano che ci andavamo accostando alla cima, le file dei pellegrinanti si diradavano. Molti trattenuti dalla stanchezza si fermavano dove un riparo qualunque poteva difenderli dalla bufera indiavolata; altri e sopra tutti le donne o incinte o vecchie o soverchiamente adipose, prese dallo sgomento o dal tremito della febbre, si lasciavan cadere su gli arginelli della via e intorno a loro i parenti e gli amici si trattenevano per assisterle. Alcune di queste femmine compassionevoli spinte da una forza di volontà superiore e dal fanatismo che le accecava, coi piedi sanguinanti e quasi trascinate dai parenti che amorosamente le sorreggevano, sostenendole sotto le ascelle, venivano avanti piangendo su per il doloroso Calvario. Ogni volta che raggiungevo uno di cotesti gruppi, mi sentivo prendere da un senso di pietà che si convertiva subito in disgusto e ribrezzo, e affrettavo allora il passo, perdendoli presto fra la densa caligine del nembo che ci avviluppava. Non meno disgustoso era lo spettacolo dei mendicanti, dei quali era seminata la via. Tutte le piaghe, tutte le miserie, tutte le membra storte, mutilate o rotte di quei falsi o veri miserabili, erano messe allo scoperto e quasi buttate in faccia ai passanti, a dispetto del rigore del freddo. Muti o finti muti stralunando gli occhi e agitando in aria le braccia, ululavano chiedendo pietà; finti indemoniati si svoltolavano sul terreno fradicio e motoso, mandando ora rantoli bestiali, ora fingendo di cadere in deliquio, e mordendo la terra e rosicando erba che strappavano dal terreno portandosela con avidità alla bocca bavosa; gobbi con la groppa nuda che stando a bocconi sopra un canile di paglia si contorcevano e strepitavano accennando la loro deformità; storpi, monchi, ciechi che si buttavano a baciare il terreno sacro o i piedi dei passanti, attraversavano la via recitando preghiere, o esaltando le virtù della miracolosa immagine di Maria; vecchi con le membra coperte di ulceri e di piaghe che si fasciavano e si sfasciavano continuamente, gridando e scuotendo all'aria i loro luridi cenci verso la sacrosanta Abbazia, che già si cominciava a scorgere attraverso ai fiocchi della neve: e ognuno di costoro aveva un motto speciale, che ripeteva continuamente, per lodare le virtù di Maria Vergine o per dipingere le sofferenze delle anime del Purgatorio, o per rammentare i meriti che si acquistano presso Dio con quella elemosina che domandavano. Sopra un crocicchio che faceva la via, incontrandosi con altri viottoli che venivano dalla pianura, stava un uomo di aspetto lugubre incappato di nero, il quale suonando continuamente con la sinistra una grossa campanella, chiedeva pietà ed elemosina per le anime sante del Purgatorio, mostrando con la destra ai passanti un vassoio con sopra un teschio umano annerito, mezzo nascosto fra i soldi di rame e la neve; e molti si avventavano a baciare quel teschio e a deporre il loro obolo nel vassojo, mentre dagli altri viottoli della montagna giungevano ad ingrossare la turba fanatica altri drappelli di processionanti aggruppati dietro a bandiere o a crocifissi, cantando salmi, lamentandosi e presentando le solite scene desolanti di vecchi spedati, donne scapigliate portanti in collo bambini lattanti che strepitavano, e ammalati sostenuti a braccia ed altri quadri ugualmente pietosi, nauseanti e compassionevoli. Quando fummo a poche centinaja di passi dall'Abbazìa, il cielo si rasserenò ad un tratto; il sole tornò a sfavillare ed a posarsi tepido e sorridente su le nostre povere groppe ed il panorama delle sottoposte vallate si aprì ampio e luminoso quasi sotto ai nostri piedi. Mi fermai un momento ad osservare, e correndo con lo sguardo le enormi distese di boscaglie che ingombrano il principato Citra, quasi non interrotte fra Avellino, Nola e Frigento, dove pochi anni or sono correva libero con le sue bande feroci Cipriano La Gala, misurai con l'occhio quello spazio immenso e mi sentii involontariamente stringere il core, pensando al core di Cipriano, quando mi venne fatto il confronto fra l'ampiezza sconfinata di quell'orizzonte e l'angustia della cella, dove pochi giorni addietro lo avevo incontrato visitando il Bagno penale di Portoferrajo. Mi venne voglia in quel momento di figurarmelo un eroe leggendario, uno di quei tanti generosi che, inaspriti dalla sventura in forma di giustizia umana, corrono intolleranti alla macchia a muover guerra da belve all'umanità che come belve li caccia; volli figurarmelo montato sul suo puledro, carico d'armi e di vesti fantastiche, galoppare fra quelle balze, seguìto dalla sua donna animosa o accoccolato all'ombra d'una quercia in mezzo ai suoi, novellare delle sue gesta, del suo ribrezzo alla volgare rapina e delle sue speranze di gloria, ma ogni illusione mi cadde, quando mi si riaffacciò alla mente la sua ghigna pallida e feroce e quando mi ricordai che appunto il giorno che lo vidi, era accatenato più corto in un carcere della Linguella, per aver ghermito quaranta lire a un suo sventurato compagno di pena. L'orizzonte si richiuse fra la nebbia, la neve cominciò a cadere più folta, ed io ripresi il cammino, giungendo dopo pochi minuti nel cortile dell'Abbazia. Mi parve d'entrare in mezzo ad un campo militare dopo una sconfitta. Non starò a descriverti le scene che mi accadde vedere là dentro e sotto i porticati che circondano il piazzale, essendo presso a poco dello stesso genere di quelle che ti ho descritte fin qui; ti dirò invece di quello che accadeva in chiesa. Appena presentatomi su la porta di quella, mi tornò in mente la profanazione del Tempio e le sante funate.... la profanazione v'era, ma le funate dolorosamente mancavano. Pur troppo! Davanti alla miracolosa immagine si ripetevano presso a poco le medesime scene, alle quali mi ero trovato assistendo al miracolo di San Gennaro. Dopo essersi trovati ad una di queste funzioni religiose, bisogna credere che i fedeli di questi paraggi s'immaginino sordi addirittura tutti i loro celesti avvocati, tali e tanti sono i berci e le strida, con cui si raccomandano a loro. Quante volte sentendomi fare una vociaccia negli orecchi, mi veniva voglia di persuadere il mio devoto vicino a dire più adagio e a fargli capire che in casa degli altri e specialmente in quella di Dio, quelle non eran le maniere; ma poi sentendo che mi sarebbe scappato da ridere, lo guardavo, lo ammiravo e stavo zitto. Lungo i muri delle due navate laterali s'era fatto un vero accampamento. Una gran parte dei pellegrini sdrajati per terra dormivano e russavano; altri si levavano e scuotevano le scarpe e le calze inzuppate d'acqua e di melma; parecchi s'erano quasi spogliati ed avevano teso ad asciugare i loro panni su bastoni appoggiati al muro; mucchi folti e numerosi di bambini, che devono esser portati lassù con qualche fine, perchè ve n'eran troppi, ingombravano tutta la chiesa o sdrajati, o saltellanti o accovacciati qua e là in liquide e solide occupazioni in mezzo a un continuo strillare, che mi faceva credere d'esser capitato nel Limbo. Il terreno era ingombro d'una viscida poltiglia, e questo terreno era percorso nel modo seguente da alcuni devoti peccatori, che dovevano averle fatte grosse, ma grosse davvero. Arrivavano alla porta della chiesa cantando salmi, e appena giunti alla soglia vi si buttavano inginocchiati, piegando fino a terra la testa. Un loro parente o amico che fosse, legava loro al collo o una corda o un fazzoletto e quasi trascinandoseli dietro, muoveva verso il tabernacolo della Madonna fra la folla che gli faceva ala, mentre il penitente si trascinava in ginocchio strisciando la lingua sul terreno! Non ne voglio più, non ne voglio più. Tornai nel cortile, m'ingozzai un pezzo di tonnina e un altro di baccalà crudo, chè carne nè altro v'era per sfamarsi lassù, e dopo poco, pensando che quella festa insieme con un'altra dello stesso genere, che vi si ripete nel corso dell'anno, assicurano a que' poveri monaci l'annua rendita di circa 120 mila lire, ripresi frettoloso la via, impaziente di risalutare la Primavera che mi aspettava tepida fra i vigneti di Mercogliano. In mezzo al profluvio di laida prosa, sotto al quale erano rimaste soffocate le mie dolci illusioni accorrendo a quella festa, una cosa sola, un solo segno di gentile poesia scaturito dai petti di quelle goffe creature, mi fece in parte riconciliare con loro, perchè era gentile da vero. Lungo la via avevo osservato che quasi ogni pianta di ginestra era legata ad un'altra, per mezzo di un nodo intrecciato con le loro cime. E queste ginestre annodate fra loro non le vedevo soltanto lungo la via, ma in alcuni punti ne vedevo anche in lontananza disseminate qua e là perdersi giù per le balze della montagna. Domandai notizie di questo fatto e seppi che quei nodi venivano composti dai promessi sposi che accorrono alla festa, quasi emblema del nodo che già stringe i loro cuori o come promessa di fedeltà fatta dinanzi alla Regina degli Angeli. Questi nodi vengono poi sciolti dalle coppie felici che vi tornano dopo il matrimonio. Nella mia vita non avevo ancora veduto uscire da menti volgari un pensiero così altamente gentile, nè sotto forma così dolcemente poetica. Alcuni di quei nodi erano secchi, ed intristite le piante su le quali erano stati intrecciati. Che sarà avvenuto delle coppie che non erano tornate a scioglierli? Mi feci questa domanda e seguitai la discesa tutto occupato da pensieri malinconici. Jeri sera ero già tornato in Napoli ed ebbi agio di assistere al ritorno dei pellegrini, la qual cerimonia si fa con uno sfarzo alquanto grottesco. Ad una certa ora, i pellegrini, che tornando si son riuniti fuori di Porta Capuana, credo, a spolverarsi, a strigliarsi e a rammagare tutte le avarìe dei legni, dei cavalli e delle persone, fanno il loro ingresso in città in una lunga fila, percorrendo a trotto serrato le vie della Marinella, del Piliero, Largo del Municipio, San Carlo, Castello, strada Santa Lucia, ec., in mezzo al popolo che gli attende e fa ala lungo il loro cammino. La corsa sfrenata e l'aspetto brillante dei loro equipaggi però ha qualche cosa di originale e di fantastico. Le donne sono cariche dei loro più ricchi giojelli e delle loro vesti più sfarzose e brillano e luccicano come pappagalli al sole; gli uomini hanno i cappelli carichi di gingilli di talco o sormontati da penne di fagiano e passano sventolando bandiere, ma serj però e pieni di goffo orgoglio della invidia che credono poter destare in chi sta ad osservarli; fumano tutti un sigaro lungo lungo rinnovato per l'occasione e sputano maestosamente. Le carrozze, i cavalli e le loro bardature da un certo aspetto sono belle da vero e degne d'essere osservate. Questi focosi animali che a due e spesso a quattro compariscono scalpitando furiosamente, attaccati a stupende carrozze, sono quasi nascosti sotto i loro fantastici ornamenti. Ciuffi di penne, mazzi di fiori e trofei di campanelli d'ottone su le teste e sui pallini delle selle, nastri di seta di varj colori e camelie, o vere o finte, intrecciate e annodate alle criniere svolazzanti e alle code, placche d'ottone lucidissimo e borchie e banderuole che si agitano e scintillano sotto i loro colpi d'anca, li fanno sembrare, piuttosto che cavalli, mostri favolosi che scaturiscano infuocati e lucenti dalle caverne del vulcano. Le carrozze pure son guarnite di fronzoli d'ogni maniera, come alberelli d'ottone carichi di campanelli messi in luogo dei lampioni, bandiere con immagini di santi, mazzi di fiori e lembi di vesti delle odalische che le occupano, le quali lasciano a bella posta sventolare alla mostra scialli variopinti e nastri e penne colorate, mentre sono occupate a sostenere in alto i forcuti trofei che hanno riportato da Montevergine, sopraccarichi su la cima dei noti secchioli, zoccoletti, ciuffi di piume e di talco e fiori di ginestra e cento altri fronzoli, che non saprei enumerare anche ricordandomene. La scena ha del teatrale, ma sotto un certo aspetto è bella. Tutto questo sonaglìo, e luccichìo e strepito assordante per qualche momento abbaglia e stordisce piacevolmente, ma presto annoia e mette voglia di voltargli le spalle. La gazzarra con questi equipaggi che vanno e vengono, che arrivano e tornano indietro e s'incrociano e s'arruffano, dura fino a calata di sole, andando sempre ad assottigliarsi, finchè tutti spariscono, per spingersi: i più agiati fino allo scoglio di Frisio a ribere e a rimangiare impippiandosi fino al gorguzzule; gli altri per fermarsi al Gran Caffè o a Santa Lucia ad ingozzare vistosamente ostriche e gelati, e per andarsene poi tutti a digerire l'indigestione o a meditare sopra i sacrifizj che costerà loro per tutta l'annata un'orgia di tre giorni. LETTERA VI. Dove si parla del Camposanto vecchio. Napoli, 22 maggio 1877. Sere sono, essendo montato in una carrozzella per prendere una boccata d'aria di campagna, dopo aver percorso un par di chilometri circa della strada di Poggio reale fuori di porta Capuana, attaccai questo colloquio col mio Automedonte. — Dimmi, compare; che cos'è quel gruppo di fabbricati lassù in alto a mezza collina...? — Il Camposanto nuovo, eccellenza. — No, no; quello lo conosco. Domandavo di quell'altro più in basso a sinistra.... — Ah! ho capito quale volete dire. È il Camposanto vecchio, il Camposanto dei poveri, dove sotterrano a macchina.... — Svolta, e conducimi lassù. — Io vi conduco dove volete, signorino, ma non troverete nulla di bello da vedere. — Tanto meglio. Svolta, svolta. — Il vetturino, maravigliato di un genere di curiosità che non sapeva spiegarsi, mi guardò quanto ero lungo e lentamente fece voltare il cavallo. Dopo un quarto d'ora circa mi trovai alla porta del Cimitero. Appena messo il piede dentro alla soglia, le parole del vetturino «non troverete nulla di bello da vedere» mi tornarono alla mente e quasi mi pentii d'esservi andato. Non v'era assolutamente nulla da vedere. Due corpi di fabbrica lateralmente all'androne d'ingresso contenenti la chiesa, il quartiere del prete ed altre stanze destinate a varj usi; un largo piazzale lastricato di forma presso a poco quadrata, con un lampione nel centro sormontato da croce; un'alta muraglia di cinta decorata internamente ad arcate in grossezza di muro, ed una piccola Grù collocata sopra piano mobile che al mio arrivo stava inoperosa in un angolo del piazzale; ecco tutto quello che mi dètte nell'occhio al primo giungere nello squallido carnajo, dove il Municipio di Napoli manda ogni anno circa 7000 _capi_ di bestiame umano a putrefare in combutta. Un uomo di piacevole aspetto, ma coperto di abiti cenciosi, che stava seduto presso la porta, mi si annunziò come il custode; ma siccome esitavo ad entrare, mi disse che passassi pure, ed accennandomi alcuni meditabondi straccioni che erravano là dentro, mi fece sapere che senza alcuna cerimonia l'ingresso era libero a tutti in quel recinto. — Entrai. Fatti alcuni passi, però, tornai indietro per fargli questa domanda: — Scusate, custode, che cosa sono quelle lapide tonde lì sul lastrico e numerate una per una con lo scalpello? — Le sepolture, signore, — mi rispose. — In tutte sono 365, appunto quanti i giorni dell'anno. 360 sono qui, come vedete, ed altre 5 nella chiesa. Alle 6½ della sera se ne apre ogni giorno una e lì si seppelliscono, con quella macchina laggiù, i morti che sono arrivati nella giornata e quelli che arrivano nella notte. Si richiude alle 6½, della mattina; ma se vi piacesse vedere come si fa, trattenetevi o tornate stasera verso le sette, chè vi _divertirete_. — Nel tempo che il custode mi dava queste notizie io gli badavo appena. Fissatomi su quel piano uniforme, nudo come l'idea della morte, sotto al quale milioni di cadaveri imputridivano accatastati, mi sentivo prendere adagio adagio da una noja, da un malessere, da così fredda tristezza, che volentieri me ne sarei andato, se una strana curiosità non m'avesse inchiodato là dentro. Era una tale scena di desolazione da mettere i brividi addosso al cinico più ributtante. — Io ti racconto quello che vidi e nulla più. — Due vecchi, a capo scoperto sotto la sferza di un sole infuocato, percorrevano il piazzale in su e in giù lungo le file di sepolture, recitando salmi a bassa voce e mandando ogni tanto qualche lamento, ora battendosi il petto, ora facendosi segni di croce, ora aprendo le braccia con gli occhi rivolti al cielo. Presso una lapide, poco discosta da me, era un gruppo composto di una donna adulta, una giovinetta e tre bambini, di certo madre e figli, che ad intervalli pregavano e piangevano in silenzio dirottamente. Avrei fatto volentieri qualche interrogazione a quei disgraziati, ma mi guardai bene dal disturbare il loro doloroso raccoglimento. La madre era inginocchiata col capo abbandonato su le spalle della figlia maggiore che le sedeva accanto; dei tre bambini, il maggiore prendeva parte alla preghiera e al dolore; il secondo dormiva col capo fra i ginocchi della sorella, ed il terzo si gingillava con una lucertola legata per la coda. In un angolo dormivano due straccioni, russando saporitamente; in un altro, un branco di monelli schiamazzavano e facevano gazzarra, gettando sassi in aria. Ma era così fredda la tinta del quadro, che quelle grida d'allegrezza non ne turbavano minimamente la intonazione; avrei giurato che piangevano anch'essi. Nel mentre che osservavo taciturno, comparve su la porta un uomo scamiciato e coi calzoni a mezza gamba, il quale portava qualche cosa su la testa che da lontano non potei subito riconoscere. Entrò canterellando, con una mano su i fianchi e l'altra all'oggetto che recava in capo. Era svelto ed elegante come una figura pompejana. S'inoltrò qualche passo, e dopo essersi guardato d'intorno chiamò: «Treonce!» Treonce, che era uno dei facchini di servizio addormentati in un canto, si alzò, gli corse incontro ed io feci altrettanto. — L'oggetto che il nuovo arrivato teneva su la testa, era una piccola cassa da morti. In tempo che il custode preparava quella di deposito, i due facchini ne schiodarono il coperchio e misero allo scoperto lo scarno cadavere di un bambino di circa due anni. Era rinvoltato in pochi e laceri cenci, ma una povera ghirlanda di frasche gli contornava l'esile corpicino, ed una rosa di maggio gli si vedeva pendere fuori dalla bocca. Mi passò attraverso al pensiero la mano che aveva accomodato quella rosa, e mi sentii serrar la gola, mentre i ragazzi che schiamazzavano là in fondo, erano corsi pizzicottandosi, e saltavano intorno a noi distratti e sorridenti. Preparata in un momento la cassa di deposito, il piccolo cadavere fu preso da un facchino per una gamba e sbatacchiato lì dentro. La ghirlanda volò da una parte, la rosa da un'altra, e due righe di sangue uscirono dalle narici a solcare le gote di quella misera creatura. — I monelli si strapparono fra loro le frasche e la rosa, ed intanto l'industrioso Treonce, finita di schiodare a suon di pedate la cassa, si allontanò coi pezzi sotto il braccio, fischiando allegramente l'aria della _Palumbella_. Così vidi arrivare altre casse con cadaveri di adulti, o su barrocci o portate a mano o sul cielo di carrozze, ed a tutti ho visto dare presso a poco lo stesso trattamento. Ad un cadavere di vecchia vidi cadere, nel levarlo dalla bara, l'unico brandello di panno che le copriva il ventre e restar nuda affatto sotto gli occhi di una folla di curiosi; ad un altro di uomo attempato, che scivolò dalle mani di chi lo sosteneva per le spalle, vidi battere il cranio su le lastre, con quel rumore sinistro che non si scorda e non si confonde mai con altri. Ma non è nulla! Napoli è distante; i satrapi sono a pranzo, e questo piccolo rumore non arriverà certo a disturbare il loro placido chilo. Superato il primo ribrezzo, però, mi sentii sempre stonato, ma guardai con crescente indifferenza ogni nuovo cadavere che giungeva, e capii che se, come quei ragazzi, avessi passato le mie giornate là dentro, in poco tempo mi sarei ridotto a prenderla in chiasso e a ballare e ridere come loro. Chiamato da parte il custode, gli domandai: — A che ora il seppellimento? — Principiamo alle 6½, ve l'ho detto dianzi. Verrete a vedere, eccellenza? — Non è difficile. — Appena uscito, il cocchiere mi chiese: — Ebbè, signorino, che avete visto? — Nulla. — Ve l'aveva detto! — La sera stessa mi fu impossibile tornarvi, ma tre giorni dopo, alle 6 precise, ero al posto. Per la via che conduce al Camposanto, e più specialmente nell'ultimo tratto di salita selciata, incontrai molti gruppi di persone, la maggior parte delle quali se ne venivano conversando e ciarlando allegramente. Mi sorprese tanta folla ed il suo contegno, ma seppi dopo che, essendo venerdì, vi accorreva numeroso il popolo minuto per procurarsi il terno, ricavando le combinazioni dal numero dei morti, dal loro sesso od età, e seppi anche che alcuni _dotti_ esercitano là dentro la nobile industria di studiare e spiegare i casi più difficili a chi gl'incarica della delicata operazione, ricevendone in cambio un piccolo onorario. — Utilissima notizia per quei padri di famiglia che volessero avvantaggiarsene, per uscire dalle loro ristrettezze economiche. — Come troppo spesso il ridicolo è vicino allo spaventoso! La macchina stava già al posto accanto alla sepoltura che doveva scoprirsi fra poco, e nove cadaveri dentro casse scoperte si vedevano collocati a raggio intorno alla lapide Nº 145: cinque vecchi, tre bambini ed un giovane dell'apparente età di trent'anni, intorno ai quali un cento di persone circa stavano stupidamente contegnose ad osservare. Accostandomi a quel gruppo, mi dètte nell'occhio una giovine donna di bella figura, ma della quale non potei distinguere i lineamenti del viso, perchè avendo passato le sue braccia sul collo di altre due donne che le stavano ai fianchi sorreggendola, lasciava ciondolare il capo in avanti, nascosto affatto sotto una folta pioggia di capelli arruffati. Tremava a foglia a foglia e si contorceva, mentre le compagne le asciugavano il sudore coi grembiuli, e le dicevano sotto voce qualche parola che non potevo intendere. L'arrivo del prete mi distrasse e la persi di vista. — La folla si aprì in due ali per dargli passaggio, e subito gli si richiuse dietro affollandoglisi intorno. Il silenzio era allora perfetto; soltanto a lunghi intervalli giungeva fino a noi la romba della città, portata dalla brezza della sera, e quel rumore confuso mi pareva come un respiro cavernoso, mandato dalle migliaja di polmoni che disfatti tacevano sotto a' miei piedi. Vi sono impressioni che non si raccontano, ma si pensa e si tace, perchè la parola è insufficiente. Il vecchio sacerdote recitò la preghiera dei morti; benedisse i cadaveri, e si ritirò, facendo un cenno agli uomini di servizio che messero subito mano al _lavoro_. — Iam! — gridò uno di loro, e in un istante la lapide dell'immane carnajo fu sollevata. Un'ondata di tanfo nauseante buttò indietro in un momento le cento facce dei curiosi che vi stavano sopra, ma cento facce improntate di stupida curiosità, di ribrezzo e di paura si riaffollarono subito su la fetida buca. I monelli restati di fuori gridavano facendosi largo fra le gambe dei curiosi; quelli rimasti serrati strillavano, sentendosi soffocare, ed intanto gli uomini addetti alla macchina non cessavano di raccomandarsi gridando: — Indietro! cascherete dentro! via! via! finiamo! — Bisognò lasciar correre un quarto d'ora buono per dare sfogo alla bestiale curiosità della folla, e cominciò subito dopo la funebre operazione. Il sinistro ordigno fece cigolare le sue ruote e la cassa metallica sospesa alle sue catene venne a posarsi orizzontale sul terreno. In quel tempo mi affacciai alla tenebrosa apertura, ed arruotando gli occhi scorsi nel fondo una massa informe di ossa biancheggianti e di panni muffiti. Il ribrezzo mi buttò indietro. Il primo cadavere tolto dalla bara venne in pochi secondi collocato nella cassa metallica che sotto la forza degl'ingranaggi fu sollevata qualche linea sopra il terreno e calata lentamente nella fossa. La folla vi si spenzolò sopra di nuovo per osservarne la discesa, quando ad un certo punto scattò una molla, il fondo della cassa si era aperto e la prima carogna umana, con un tonfo sordo, era andata ad occupare il suo posto nel letamajo assegnatole per ultima dimora. La cassa ritornò in su, e questa volta toccava all'uomo giovine a dare il funesto spettacolo. Due facchini, prendendolo uno per le gambe e l'altro sotto le ascelle, lo depositarono nella cassa della macchina. L'aspetto del cadavere di un uomo giovine, che si disponeva a fare la lugubre discesa, aveva impressionato anche i più stupidi. Nessuno fiatava, e in mezzo al silenzio generale la Grù fece sentire il suo strepito sinistro. Un grido soffocato m'arrivò alle orecchie, e vidi comparire affannata ed avventarsi su la buca, entro la quale scendeva il cadavere, la giovane donna che poco fa aveva fermato la mia attenzione. Le due amiche le corsero dietro e l'agguantarono per le vesti, per paura che si precipitasse nella tenebrosa cisterna, ma si fermò invece spenzolata sull'orlo di quella con gli occhi invetrati, finchè, al tonfo che fece quel corpo battendo sul fondo, piegò, come se le fosse caduto sul core, e si abbandonò fra le braccia delle sue compagne. Mi voltai ad un vecchio che mi stava vicino osservandola e gli domandai: — La conoscete? — Robba de lupanare, eccellenza... — Basta. — Un cupo mormorio di compassione e di paura si levò a quella scena, ed alcuni di noi ci muovemmo per soccorrere quell'infelice, ma non fummo in tempo, perchè barcollando ed agitando convulsamente in aria le braccia, la vedemmo sparire come un fantasma attraverso alla luce del lampione che illuminava l'androne d'ingresso, sorretta dalle sue compagne che quasi se la portavano in collo. In quel momento un ragazzo che, per veder meglio, s'era ficcato attraverso alla macchina cominciò a gridare: — Ahi! Ahi! la mano, la mano! — (gli era rimasto un dito fra gl'ingranaggi) e la folla e gli uomini di servizio: — Indietro, indietro le rote! — Stiamo facendo — Ah! mi si tronca, mi si tronca! — La lanterna, la lanterna! — Levate il piede dalla catena! — È una creatura d'Iddio! — Così non si farà niente! — Ah! madonna, madonna! E tu dove vai? — Ci cascherete dentro; indietro, indietro! — Ed altre esclamazioni ed altri urli e un turbinìo di teste, di braccia e di mani, che tumultuosamente si affollavano in un punto. In quel mentre altre grida partivano da persone spaventate, che fuggendo inciampavano e inciampando cadevano attraverso alle casse dei cadaveri ancora insepolti.... Dio, Dio, Dio! Fu una scena d'orrore, una scena d'inferno, ed io coi capelli ritti e la pelle increspata, uscii di là dentro inorridito, nè valse a mitigare la mia tristezza paurosa la pazza allegria dei nuovi giardini alla Marinella, dove corsi affannato per divagarmi. Qualche anno fa, il figlio d'un potentato d'Europa, dopo aver sentito parlare di questo cimitero, osservava non so a quale Autorità napoletana: — Spero che sarà stato soppresso? — E potete dubitarne, Altezza Imperiale? — gli fu risposto. Quel giorno stesso, venti carogne umane andavano una dopo l'altra a capo fitto, a stroncarsi le costole contro le ossa di chi le aveva precedute nell'immonda voragine. Lettera VII. Dove si parla d'una gita a Capri. Napoli, 25 maggio 1877. Quante serate ho passato, con gli occhi fissi e l'ansia degl'innamorati nel core, a contemplare quell'isola incantatrice! Appoggiato alla spalletta lungo la marina al Chiatamone, posavo i miei sguardi desiderosi su le sue balze romite, e data la via a tutta la suppellettile di romanticismo che ogni buon realista deve portar seco necessariamente per le occasioni straordinarie, mi perdevo in un oceano di dolcissime fantasie, concludendo col domandarle: — E quando mi sarà possibile salutar Napoli dalla cima del tuo Solaro, o Capri maravigliosa? — Capri non mi rispondeva ed io, voltandomi indietro ogni tanto a darle un'altra occhiata, mi allontanavo adagio adagio, finchè, dopo aver destato con un caldo addio gli Echi del Castel dell'Ovo, correvo a spegnere i miei bollori romantici intorno alla mole parallelepipeda d'un gelato partenopeo. Sono stato finalmente a Capri, dove ho passato due giorni di delizia, ed ora voglio dartene qualche ragguaglio. La traversata fu abbastanza monotona, perchè il mare era troppo tranquillo e la compagnia non troppo adatta alla mia indole ed alla circostanza. Una banda di sei camorristi mascherati da suonatori che strapazzarono il Verdi, il Rossini e le mie orecchie, finchè non fummo arrivati, ed una comitiva numerosa di pellegrini francesi e tedeschi, che presi crudelmente dal mal di mare miagolarono per tutta la traversata, erano i compagni che la sorte m'aveva regalati e mi vi rassegnai. Me ne corsi a prua, mi accavalciai sull'albero di bompresso, lontano dalle armonie e dai conati, e lì sognando di cavalcare un mostro marino, padrone dei venti e dell'Oceano che mi brontolava timido ai piedi, bevvi a sorso a sorso il fascino di quell'isola agognata, che mi rivelò ad uno ad uno i misteri de' suoi seni profondi, delle sue vallicelle fertili e solitarie e de' suoi picchi severi, correndomi incontro su le acque, ed ingrandendo a' miei occhi ad ogni passo la sua mole tranquilla. Avevo trovato la pace, ma per un momento fu seriamente minacciata. Un vecchio ossuto e brontolone che aveva già avuto che dire col secondo e con lo sguattero di bordo, mi raggiunse anche lassù. Mi si accostò adagio adagio, e quando mi fu vicino mi raccontò, ma col tono solenne di chi ha fatta una grande scoperta: — Divino questo cielo d'Italia! — Le dieci e mezzo precise, — risposi io, tirando fuori l'orologio. — E lui: — Eeeh? — E io: — Eeeh? — Divino questo cielo d'Italia! — ripetè forzando la voce. — Dite più forte, non v'intendo, — e m'accennavo l'orecchio. Lo feci sgolare per una diecina di minuti, dopo i quali, come Dio volle, ebbi la gioja di vederlo allontanare non soddisfatto, ma tutto pace e compunzione, ed ottenni così il mio scopo di restarmene solo, lontano dalle distrazioni ed in compagnia delle mie stravaganti illusioni. Ma Dio non paga il sabato. C'incontrammo lo stesso giorno alla locanda a tavola rotonda, e me lo trovai proprio accanto! Che si fa? Per liberarmi da spiegazioni che potevano essere nojose, mi toccò fare il sordo tutto il tempo del desinare, e se soffrissi non lo so altro che io con la voglia che avevo addosso di espandermi e di parlare da per tutto e con tutti, di tutto e di tutti, e di ridere e di chiassare strepitosamente. Ma me l'ero meritato. Il battello intanto filava allegramente, e presto arrivammo in prossimità d'una riva solitaria, irta di scogliere maestose, dove, appena dato fondo, una folla di piccole barche ci si avventò incontro, per condurci in quella caverna fatata, in quel fantastico gineceo delle Nereidi, che tutto il mondo conosce sotto il nome di Grotta Azzurra. Che natura meravigliosa è questa! che prodigio della creazione è questo golfo superbo, questo cielo, queste isole, questo mare, dove non è lecito muovere un passo o guardarsi d'intorno, senza incontrar sempre nuove cause d'entusiasmo e di stupore! La Grotta Azzurra deve essere un inganno per le anime volgari che la vedono la prima volta. Avvezzi tutti a sentirla cantata ed a vederla dipinta come uno scenario a festoni imbevuti nel turchinetto, lunga lunga e azzurra azzurra, devono trovarsi necessariamente sconcertati, quando si accorgono che non è nè spaziosa nè azzurra come l'idea che se n'erano formata, ma raccolta e colorata di un verde mare metallico a riflessi d'argento lucentissimi, e più bella e più poetica di quello che fantasia umana possa immaginare. Io pure ho provato questa prima impressione, e ne sarei escito malcontento, se trattenendomi là dentro non mi fossi sentito, a poco a poco, trasportare in uno stato di estasi dolcissima. La luce scaturiva dalle acque profonde, ma era luce che mi pareva soprannaturale; era una luce fosforescente, in mezzo alla quale vagavano, lenti lenti, gruppi di pesci fantastici, vestiti dei colori dell'iride, e su le pareti e sul fondo incerto della vôlta vedevo strisciare danzando fantasmi d'argento alati, e dissolversi e ricomporsi rapidamente in mille forme bizzarre. Le mie idee cominciarono a smarrirsi, e non sapendo più credere che quelli erano i riflessi delle onde leggermente agitate, mi trovai perso in un mare di sogni soavi. Sognai di Fate e di palazzi incantati, dove mi pareva trovarmi in forza di qualche magìa; pensai al lago fragrante del Profeta e mi addormentai all'ombra odorosa del Taba, aspettando la voce melodiosa d'Izzafril, che mi chiamasse alle eterne voluttà del Genna; sognai i letti di musco e di canfora e i lunghi amplessi delle Huris dalla nera pupilla, e chi sa che capata avrei battuto negli scogli della bassa apertura che mette alla grotta, se il barcarolo non mi avesse strappato a' miei sogni strillandomi: _Signurì, Signurino, abbasciate 'a capa!_ ed uscii meditabondo e confuso dalla fatata caverna. Sbarcati alla marina di Capri, i miei compagni si allontanarono presto, chi a piedi, chi facendo dama su un branchetto di somarelli che aspettavano presso lo scalo, e rimasi finalmente solo. Che quiete beata mi contornò allora! Pochi pescatori stavano a sedere su la rena, rassettando reti, i quali cantando sotto voce pareva non volessero turbare il silenzio di quella riva solitaria, ed un gruppo di bambini saltellanti e di giovinette fresche e gentili mi furon subito intorno, offrendomi pietruzze colorate e rose. Ero in uno stato di assoluta beatitudine. Mi voltai al mare. Il Vesuvio lontano fumava, e Napoli con una sottilissima striscia biancastra segnava il limite fra i due campi sterminati d'azzurro, del cielo e del mare. Messomi a sedere sopra uno scoglio davanti al grande spettacolo, quello che godessi non lo so; che cosa si dicessero fra loro in quei momenti il mio core e il mio cervello, nemmeno saprei dire; ma so che il core mi doleva, e che le grandi gioje dell'animo somiglian troppo al dolore, tanto è impastata male questa povera creta umana. Mi alzai dopo poco, e prendendo su per una straduzza ripida e tortuosa, accompagnato dalla mia dolorosa contentezza, m'incamminai verso la piccola città di Capri. Andandomene su su, e ripensando alla storia di quest'isola singolare, e più che altro alla sinistra figura di Tiberio, non mi sarei mai immaginato che quel po' di ridicolo che avrei trovato per divagarmi su quelle spiaggie malinconiche dovesse appunto venirmi da lui. Tutto là è Tiberio, o meglio _Temberio_, come lo chiamano quei pacifici isolani: _Hôtel_ Temberio; Villa di Temberio; Bagno di Temberio, Piazza di Temberio, Salto di Temberio, Temberio insomma da tutte le parti, ed io ne ho riso di grandissimo core, quando per curiosità o per sentirmelo ripetere domandavo spesso a quella buona gente: — E quelle rovine? — Il castello di Temberio. — E quella casa? — _Hôtel_ Temberio. — Lo strapazzo che si fa del nome di Tiberio su quell'isola non ha confronto con altri di simil genere. Povero Tiberio, quanta ferocia sprecata per render pauroso col suo nome questo romantico teatro delle sue ultime orgie sanguinose! Presso la rupe, dove il voluttuoso assassino precipitava in mare le sue vittime, è ora una bianca casetta, e presso a questa casetta un fresco pergolato, all'ombra del quale vidi due brune e spensierate figlie dell'isola ballare al suono di cembalo e di nacchere la _tarantella_. Ogni cosa è piccola in quest'isola: le strade strette; le case piccine piccine, i muri di cinta, bassi bassi; le piante rigogliose, ma piccole anche quelle, e fa meraviglia che anche gli uomini non si siano misurati al metro di tutto ciò che li circonda. Le loro casuccie rimpiattate fra i ciuffi di cedri e di olivi sembrano bianche scatolette, appena capaci di contenere una famiglia di pigmei, ed ho riso della stonatura che facevano coi loro abitanti, tutte le volte che scorgevo comparire su la porta d'uno di questi edifizj lilliputtiani un uomo, che fregando le spalle agli stipiti e toccando con la testa l'architrave sembrava due volte almeno più grande del vero. Quando poi qualcuno si affacciava alle finestre, mi parevano addirittura ritratti di figure colossali, incastrati in un'angusta cornice. Tutta questa piccolezza poi diventa notabilissima nella piccola città di Capri (Crape per quegli abitanti), girando per la quale mi pareva trovarmi dentro una casa, di cui la gran piazza rappresentasse una modesta sala d'ingresso, e le strade, gli anditi di comunicazione fra quella e le altre sue piccole e luminosissime stanzette. Le comarelle che stanno a filar seta su la porta di strada, si porgono fra loro le bionde matasse e si dicono negli orecchi i loro innocenti segreti, da un lato all'altro della via, senza muoversi da sedere. Sembra tutta una famiglia; una buona famiglia ordinata e pulitissima, in mezzo alla quale ci troviamo cordialmente ospitati, perchè tutti vi guardano, o vi salutano o vi sorridono piacevolmente. Quanto debbono esser buoni i Capresi, che riuniti in così numerosa famiglia vivono in tanta pace ed hanno negli occhi tanta allegrezza serena! Avrei abbracciato tutti e soffrivo realmente non potendomi espandere con nessuno. Quando andai a visitare la piccola cattedrale, fermò la mia attenzione un chiodo piantato nel muro presso una piletta d'acqua santa. Domandai di quel chiodo, e seppi che smarrendo per l'isola un qualunque oggetto, anche di gran valore, non s'ha da far altro che andare dopo un dato tempo a quel chiodo, dove certamente ritroveremo l'oggetto, che sarà andato ad appendervi colui che l'avrà ritrovato. Non ci credo, — dissi. — È la verità, signore, — mi fu risposto. Credei di sognare. Mi saltò allora in testa un'idea gigantesca. Se tanti chiodi simili si piantassero nelle cattedrali di tutte le metropoli d'Europa! Se si desse ai popoli un segno di tanta fiducia! chi sa? Gli uomini, in fin de' conti, non sono che fanciulli adulti, e nei fanciulli caparbii non è raro osservare sublimi reazioni, di fronte ad un atto improvviso di altissima stima che gli umilii. Si tenti dunque la prova; si metta il chiodo maraviglioso, ed io son qua per scommettere che se è di ferro e bene aggrappato, nessuno lo porterà via. — Tutto ho veduto di questa pittoresca isoletta. Assistito dalle mie gambe di ferro, perchè là grazie a Dio non vi sono carrozze, e dalla mia volontà, non ho lasciato inesplorato un palmo di quel terreno. Dai Faraglioni al Capo Campetiello; dalla Grotta Azzurra alla Cala del Tuono, ora inerpicandomi con le mani e coi piedi, ora sdrucciolando giù per un piano inclinato, ora saltando da uno scoglio all'altro, in compagnia del mio vispo Peppino, un giovinetto che mi fu dato per guida dal mio locandiere in Capri, la girai tutta, e in tutti i versi l'attraversai cantando, ridendo e propinando ai Genj di quelle piccole solitudini, col baciare ripetutamente la mia fiaschetta di Cognac, ed ammettendo al mistico bacio anche il sospettoso Peppino, il quale, abbandonato dopo poco ogni ritegno, si slanciò fino a cantare con me quel soave rispetto della Montagna pistojese: Quanti ce n'è che mi senton cantare, Diranno: Bon per lei ch'ha il cor contento. S'io canto, canto per non dir del male: Faccio per isfogar quel ch'ho qui drento, Faccio per isfogar l'afflitta doglia: Sebbene io canti, di piangere ho voglia. La nostra gita però non era affatto solitaria, perchè era caso raro che nei luoghi più pittoreschi non incontrassimo, intenti al lavoro sotto i loro ombrelli di tela, qualche pittore o pittrice, i quali ci salutavano in tutte le lingue d'Europa, tolta l'italiana, giacchè pittori italiani, forse perchè avranno trovato da far meglio in altre regioni, a Capri è difficile vederne. E questo non incontrare là nessun mio compatriotta, tanto più mi rincresceva, perchè il contegno di quegli ultramarini e ultramontani seguaci d'Apelle, fra quegli scogli, dei quali credono aver acquistato ormai il diritto di proprietà, è talmente altero da rattristare un povero Italiano che approdi su quell'isola, credendola in buona fede un frammento della sua patria. Anche gli abitanti, per lunga consuetudine e per così frequenti contatti con gli stranieri, tanto nei modi, quanto nella lingua, hanno quasi perduto il carattere italiano, che è loro rimasto solo nel tipo. Ma rispettiamo i decreti della Provvidenza, la quale si sarà forse servita di questi mezzi per far migliori i buoni Capresi. Quando entrai nella piccola Ana-Capri, mi fu rammentata Pompei dalla solitudine delle sue bianche viuzze. Mi maravigliò tristamente tanto silenzio, ma poi seppi che quella popolazione di romiti agricoltori era tutta dispersa giù per gli scoscesi vigneti, che contornano la città. La girai silenzioso anch'io, parendomi villanìa il disturbare il riposo di quelle casette, che per la scarsità delle loro aperture e per la bianchezza abbagliante delle loro pareti mi davano tutte insieme l'idea come d'un mausoleo di neve innalzato dal Silenzio al Dio della luce. Non trovai altre immagini che mi contentassero. Degli abitanti d'Ana-Capri vidi una sola donna dalle forme egizie e non bella, ed ebbi a rimanere estatico davanti alla bellezza strana del quadro che quella figura compose davanti ai miei occhi. Era sull'_astrico_ della sua casetta a tender panni, ed io dalla via la vedevo campeggiare nell'azzurro del cielo. Il suo viso aveva la tinta di quel bruno lascivo della _nigra_ fanciulla del Cantico de' Cantici; nerissimi i capelli avviluppati in una pezzuola gialla e rossa; il resto del suo vestiario bianco, bianchi i denti, bianchi i panni che tendeva al sole, bianca la sua casetta, e bianca mi pareva la sua voce, perchè cantava. Ah! non sapevo dipingere! Avanti, avanti, Peppino! e riprendendo la via per certe strade, che parevano selciate dalla Società di mutuo soccorso fra i calzolari del Regno, ci avviammo alla cima del Monte Solaro, la più alta punta dell'isola. Sentii su in alto un suono di trombe, e mi parve di vedere in lontananza alcune persone che si muovevano fra quelle rupi in mezzo al luccichio di armi o di altri strumenti di ferro, che parevano agitare all'aria. Erano soldati di linea, una piccola truppa di così detti discoli relegati nell'isola, i quali stavano occupati su quell'altura a costruire un fortino di terra. Anche quest'isola può essere un luogo di pena! riflettei. E che inventeremo allora per le ricompense? Ma non è possibile, pensai, che quei giovani non siano beati di un gastigo che somiglia tanto ad un premio. Non era vero. Lassù non si trovano nè bettole, nè bische, nè lupanari, e allora che cosa è la vita su quel maledetto scogliaccio? Così battezzava l'isola di Capri uno di quei rompicolli, il quale mi parlò, dando in escandescenze, ed invocando fervorosamente un terremoto che la inabissasse con tutta la canaglia che c'era sopra. Io non desiderai altro in quel momento che d'entrare per dieci minuti nell'animo suo. Gli dètti un sigaro prima che me lo chiedesse, e tirai avanti pel mio viaggio. Si dissiparono presto le impressioni del disgustoso incontro, e vidi più bello che mai il _maledetto scogliaccio_, sul quale passeggiavo. Il viottolo che percorrevo era fiancheggiato di gigli e di ginestre in fiore, e dal mezzo di queste ginestre, aprendole davanti a sè con le delicate manine, escì venendo verso noi la piccola Narella, la sorellina di Peppino, la quale con l'abbecedario sotto il braccio e tutta sorridente se ne tornava dalla scuola. Corse incontro al suo fratello, che da qualche giorno non vedeva, perchè Peppino sta a Capri e Narella ad Ana-Capri; lo salutò amorosamente coi suoi occhiolini lustri, eppoi rimase timida a guardarmi. — Come ti chiami? — Narella. — E dove vai? — Ad _Ana-Crape_. — Di dove torni? — Da scuola. — Sai leggere? — Sì. — Sentiamo. — Apri franca il suo libretto e incominciò. Dopo che l'ebbi lasciata un po' sfogare coi suoi: _bab_, _bib_ e _bub_, le dètti un bel bacione su le sue gotuzze brune e la lasciai, pensando con dolore che forse non avrei più riveduto la piccola e graziosa Narella. Più che belle, le femmine di Capri sono piacevoli e gentili per la gajezza che lampeggia nei loro occhi lascivi. La loro statura è piuttosto piccola, ma sono tanto proporzionate, che in tutta l'isola si cercherebbero inutilmente quei seni _gloriosi_ che ingoffiscono alquanto le belle Napoletane. Dagli avanzi petrificati che ho veduto delle graziose Pompejane, mi pare di poter credere che le calde figlie di Capri molto abbiano ereditato da quelle delle ravviate fattezze e dei delicati ed eleganti contorni. La loro briosa intelligenza, poi, è qualche cosa di incantevole. Ed ora che le ho conosciute, intendo facilmente come spesso succedano matrimonj fra queste brune ammaliatrici e gli artisti che capitano nell'isola, i quali raramente hanno da pentirsene, perchè la facilità con la quale queste piccole pescatrici imparano le lingue e la musica, e la loro disinvoltura nell'acquistare modi e grazie signorili è tale, che in pochi messi la loro trasformazione è tanto compiuta da porle in grado di gareggiare in cultura e gentilezza con le più eleganti dame di Parigi, di Londra e di Pietroburgo. Mi fu indicato il padre d'una di queste fortunate isolane e lo invidiai, perchè quando lo vidi era a sedere al sole sopra uno scoglio, fumando la sua pipa di gesso, mentre accomodava i sugheri ad un tramaglio. Dopo un faticoso cammino di circa due ore, per un sentiero che negli ultimi tratti è una vera e precipitosa scala intagliata nel masso a larghi gradini, giungemmo alla chiesetta dell'Eremita posta sull'orlo d'un precipizio in cima alla montagna. Avevo già conosciuto due eremiti di questi paraggi, e per dire il vero non ero rimasto molto edificato nè del loro aspetto, nè dei loro modi, nè del loro sapere. Uno di questi è l'eremita del Vesuvio, la cui serietà non impedisce ai monelli dei dintorni di chiamarlo col soprannome di _Ventidue_, che nel libro dei sogni fa pazzo. Costui non è nè prete nè frate, ma un bighellone qualunque che si maschera da cappuccino la mattina verso le nove, quando incomincia il passaggio dei forestieri, per vender loro, affettato, pane, caciocavallo e lacrimacristi, dice lui, e per prenderli dopo per il collo con ogni riguardo possibile e sopra tutto col santo timor di Dio. Un secondo della medesima stoffa lo trovai in Capri su la punta di Santa Maria del Soccorso, ma l'aspetto venerando e i modi austeri e dignitosi di quest'ultimo mi riconciliarono affatto con la specie e fui dolcemente toccato dalla onesta parola e dalla spontanea cortesia, con la quale mi accolse nel suo romitorio il buon padre Anselmo. La chiesuola, nella quale egli uffizia e presso alla quale ha poche stanzucce, dove abita solo solo, si chiama Santa Maria a Cedrella, e sorge nel punto più pittoresco dell'isola. Dalla punta di quello scoglio, che si slancia nudo nell'aria scaturendo fra bassi boschetti di sondro, d'assenzio, di rosmarino e di mortella, si gode in pianta il panorama intero dell'isola, e tutto il vasto orizzonte fino a perdita d'occhio, dal Monte Circello alle catene della Calabria, che si possono accompagnare con lo sguardo, finchè non si pèrdono nella nebbia della lontananza. È una di quelle tante posizioni, di cui abbondano i dintorni di Napoli, e che non si possono descrivere altro che dicendo: «Son troppo belle!» Mi trattenni col buon romito in piacevole conversazione circa due ore, nel qual tempo mi mostrò il suo orticello, i suoi fiori e mi serbò da ultimo la sorpresa dell'immenso panorama che di lassù si gode, conducendomi e portandomi da sedere e da rinfrescarmi sopra una terrazzetta scoperta, che sporgeva sopra un profondo burrone dalla parte del golfo. A quella vista rimasi come incantato, e senza pronunziare una parola stetti per qualche momento a guardare stupefatto ora la marina ora la faccia dell'eremita, che taceva e sorridendo ammirava, compiacendosene, lo stato di estasi, nel quale mi trovavo. Non potei più contenermi. Padrino, — esclamai, — vuole un novizio? eccomi qua. — Fece una grassa risata ed accennandomi gli occhi, mi rispose: — C'è troppo fuoco costì dentro, vi annojereste dopo tre giorni. — Non è vero! — ripetei. — Datemi la mia famiglia, una buona stanza da studio, una ricca libreria, un cane ed un fucile per dar dietro alle quaglie di questi masseti, un buon cavallo da sella, una barca, un.... — Credetti a un tratto che quel povero monaco volesse scoppiare dalle risa; io feci altrettanto, e, senza sapere di che, altrettanto fece Peppino di sul tetto della chiesa, sul quale s'era arrampicato per far qualche cosa anche lui. Le nostre risa però durarono poco. Il riso non è fatto per destare gli echi delle montagne ed in specie quelli del Solaro e della sua Cedrella. La conversazione continuò taciturna per mezzo di monosillabi e di occhiate, che volevano dire tutto quello che un volume non direbbe, finchè non cambiò aspetto, quando di parola in parola venimmo a parlare dell'eruzione del 72. La descrizione che il monaco me ne fece, dopo avervi assistito dall'alto del suo romitorio, fu sublime. Io stavo incantato ad ascoltarlo, mentre con enfasi meridionale di gesto e di parola mi descriveva il maestoso spettacolo; e il buon Peppino che stava attento anche lui di su la cima del tetto, ogni volta che mi vedeva fare atti di meraviglia, non mancava mai di ripetere: — È vero, signore, me ne ricordo anch'io. — Il sole vicino al tramonto era già sparito dietro alla chiesuola che campeggiava in un'aureola di luce dorata, quando m'alzai a malincuore per dire addio a quel romantico soggiorno di pace. Il monaco mi accompagnò fino su la porta, facendo voti per la mia salute, che io gli contraccambiai di grandissimo core, e prima di lasciarmi m'indicò, lì di fianco alla chiesa, un piccolo recinto, dove si vedevano 24 croci di legno uscir fuori fra i ciuffi di rose e di gigli fioriti. — È il cimitero dei colerosi d'Ana-Capri, — mi disse il monaco, — se volete una rosa, prendetela. — Ci stringemmo la mano e partii. Tutte le sere vado a passare un'ora su la marina al Chiatamone, e guardando l'isola illuminata dagli ultimi raggi del tramonto, penso al mio Peppino, alla piccola Narella, al buon padre Anselmo ed alle rose del Monte Solaro. LETTERA VIII. Dove si parla di una gita notturna al Vesuvio. Napoli, 29 maggio 1877. Per non dimenticare una delle più forti impressioni ricevute nella mia vita, ho scritto il racconto della gita notturna che sere sono feci al Vesuvio, e che qui sotto ti trascrivo. Leggilo prima tu, se avrai la pazienza di farlo, e dopo fammi il piacere di passarlo alla signora Zeffirina, la quale, quando seppe che venivo a Napoli, mi parlò tanto di questa montagna da farmela prendere a noja, se fosse stato possibile. Togliete a Napoli il Vesuvio, e la voce incantata della sirena avrà perduto per voi le sue più dolci armonie. Nelle notti stellate, quando la bruna verruca manda i suoi sospiri di fuoco a riflettersi in una lucida striscia sul mare silenzioso; nei giorni sereni, allorchè gli ultimi ciuffi della sua chioma sparpagliati dal vento si stendono come un velo diafano fra i dardi del sole e il profumo dei colli di Sorrento, piovono su i vostri sensi onde così sature di altissima poesia che, ammaliato davanti al sublime spettacolo, l'animo vostro a poco a poco si confonde, e va a perdersi in un mare d'ineffabile malinconìa. Il fascino di questo abbrustolito Prometeo, che ravviva con la sua anima di fuoco tutte le membra della bellissima sfinge, posata voluttuosamente a' suoi piedi, è qualche cosa di strano, qualche cosa d'irresistibile. Scendete alla riva di Santa Lucia, o a Mergellina; salite alla ròcca di Sant'Elmo, al Vomero, a Posilippo, a Capodimonte, od in qualunque altro luogo, donde si scorga la sua mole fantastica, e contemplate. Le vostre pupille si avventeranno inebriate, come baccanti aeree, attraverso al duplice azzurro del cielo e del mare; voleranno insaziabili fra tanti prodigi della creazione, dal solitario Miseno all'addormentato Epomèo, e giù per il mare biancheggiante di vele, all'arido scoglio di Tiberio ed alle balze di Sorrento, eternamente avviluppate nel loro poetico manto di verdi aranceti, e voleranno e voleranno affascinate in una corsa senza freno, finchè incontrata la fumante cima del vulcano si poseranno stordite. Il Vesuvio è il core, è l'anima, è il sunto di tutti gli splendori del Golfo; è il rubino gigantesco che sta come il fermaglio in questa collana di perle composta nel cielo, forse per adornarne il seno di Venere, e smarrita fra le alghe dal Genio della spensieratezza. Non v'è sguardo umano, io credo, in questa regione, che alla sera si chiuda senza aver guardato la cima della montagna. Il marinaro la guarda prima di sbrogliare la vela della navicella per leggere nel suo pennacchio la direzione del vento. L'agricoltore vede dalle nubi che si affollano intorno ai suoi fianchi se una pioggia benefica scenderà presto a rinfrescare i suoi campi; il dotto la osserva per misurare la sua piccolezza di fronte ai grandi misteri della natura; l'ignorante vi posa volentieri lo sguardo, perchè tanta bellezza è accessibile anche all'anime più ottuse; tutti infine vi si rivolgono con quel vago dubbio dell'anima, col quale diciotto secoli or sono, ai primi sintomi della fatale eruzione, vi si saranno rivolti i concittadini di Diomede, dai terrazzi della desolata Pompei. Egli possiede il fascino della ferocia tranquilla, le attrattive della bellezza ruvidamente accoppiata alla modestia; è il gran delinquente dalle bellissime forme che tutti ammirano, perchè è feroce, che tutti amano, perchè è bello. L'Arcangelo Michele è un poliziotto volgare; Lucifero è un eroe. Questi pensieri mi passavano per la testa una sera, mentre mezzo assonnato mi cullavo mollemente nel vagone del _tramway_, che fra le undici e la mezzanotte faceva la sua ultima corsa giornaliera da Napoli a Portici. D'una ventina d'amici, dei quali doveva comporsi la comitiva, il cielo torbo e minaccioso all'ora della partenza ci aveva ridotti a sei soli, accompagnati da un certo malumore, ma pieni di speranza in quella fortuna che ajuta gli audaci, provvisti di buone gambe e di buoni polmoni, ed animati dalla più ferma volontà d'inerpicarci ad ogni costo a salutare il nuovo giorno dall'orlo dell'infuocato cratere. Il Lacrimacristi per le libazioni di rito lo avremmo trovato lassù. Cominciammo a piedi la nostra salita abbastanza taciturni, perchè l'oscurità del cielo, che ci avrebbe impedito di ammirare nel suo pieno splendore lo spettacolo che le nostre fantasie già pregustavano avidamente, quantunque se lo fingessero mille volte inferiore alla realtà, cominciava ad indisporci assai molestamente, quando uno dei nostri compagni gridò: — Io vedo una stella! — e un altro: — Io due — e io quattro.... e sei e otto e mille.... — All'apparire della luna le nebbie si squarciarono come per incanto, e con una rapidità straordinaria le vedemmo tuffarsi in giro sotto l'orizzonte, e mezz'ora dopo l'unica nube che interrompeva l'intatta serenità della notte, era il denso pennacchio del vulcano. — Il paradiso e l'inferno si guardavano maravigliati! Quella certa tinta di malumore che ci era stata compagna fin'allora, non si rischiarò, come si sperava, col dissiparsi delle nubi. Ogni tanto un frizzo o un epigramma ci usciva sbiadito dalle labbra; un riso di convenienza lo seguiva breve breve, e dopo, silenzio perfetto. L'aspetto del Vesuvio, quella notte, era troppo solenne. La insolita vivacità che lo animava, presentava ai nostri sguardi uno di quei grandi spettacoli della natura, davanti ai quali ci sentiamo forzati a contemplare attoniti e silenziosi. Sotto ai nostri passi risuonavano le lave d'Ercolano, echeggiando su le brune pareti delle casupole che a lunghi intervalli fiancheggiano la via, entro le quali, in mezzo a tanta desolazione e a tanto pericolo, i poveri abitanti riposavano tranquilli. San Gennaro vegliava per loro in molti tabernacoli, alla luce di piccole lampade, imponendo alla montagna con la destra alzata verso la sua cima. Davanti all'immensità della natura, quanta tristezza in quei piccoli lumi! La sterminata fede di questi felici sfortunati è qualche cosa di prodigioso! Venti volte il vulcano ha vomitato le sue viscere di fuoco su le loro misere abitazioni, venti volte ha ingojato ne' suoi torrenti di lava le mura, il tabernacolo, la lampada e perfino la immagine del santo, e per la ventesima volta hanno ricostruito la casa e il tabernacolo; hanno ricollocato la immagine ed accesa la lampada, ed ora dormono sicuri come all'ombra della più esperimentata e valida protezione. Beati loro! Se la prossima eruzione distruggerà ogni cosa, che importa? Si ricostruirà il tabernacolo, si riaccenderà la solita lampada e si tornerà a dormire sotto i ruggiti del vulcano, più tranquilli di prima. San Gennaro, o prima o poi, la grazia la farà. Il vigore lussureggiante della vegetazione, in mezzo a tanta aridità del terreno bruno e polveroso, specialmente al confronto coi banchi di lava, sui quali l'occhio erra inutilmente in cerca d'un filo di verdura, è davvero maraviglioso. Pare quasi che quelle povere piante abbiano inteso la precarietà della loro esistenza e che facciano sforzi titanici per viver molto in poco tempo. Affrettatevi, affrettatevi, infelici condannate! chi sa che il nuovo autunno, invece che ad accarezzare i vostri frutti odorati, non vegga le sue brezze correre trepidanti attraverso ad un mare di scorie abbrustolite! Il Piano delle ginestre ce lo siamo lasciato alle spalle; ecco i primi campi di lava! Dio, quanta desolazione e quanto silenzio! Il trovarsi di notte dispersi in quelle brune solitudini, dove la Distruzione e la Morte vegliano sole fra le tenebre, è cosa che abbatte l'animo, poichè ad ogni passo vi torna alla mente una lunga storia di disastri, premendovi al core con una folla di tristissimi pensieri. Se la luna non avesse mandato la sua pallida pioggia di luce, avrei creduto trovarmi, nomade Selenita, in mezzo ad una gelida landa del suo _Mare Tranquillitatis_, tanto era l'aspetto di morte siderea che mi stava d'intorno. — Inoltrandomi in quella regione selvaggia ed osservandone i particolari e la infinita varietà di forme assunte dalla lava nel raffreddamento, provai un senso che mi parve di paura e dimenticando il mondo lunare, m'immaginai, ad un tratto, d'inoltrarmi fra gli avanzi torrefatti di una battaglia di Giganti, e mi guardai dintorno spaurito. Membra di colossi umani intatte o schiacciate pareva sbucassero di sotto a masse enormi di macerie; torsi, cosce e braccia apparivano disseminati alla rinfusa in quel vasto campo di morte; e rettili giganteschi, parte distesi, parte aggomitolati in larghissime spire, o aggrovigliolati strettamente fra loro come dagli spasimi della morte; e groppe e fianchi di cavalli, e d'animali mostruosi spezzate e sparse in mezzo ad avanzi di tende, e vestimenta lacere e carbonizzate; e affusti, e bombe, e mortai e fortini diroccati, e ammassi di funi, e mille altre forme paurose di oggetti e di fantastiche figure ci contornavano da ogni lato, mentre sembrava che su la cima del cono fumante si combattesse ancora l'ultimo assalto della feroce e sanguinosa battaglia. Accelerando i passi in questo diabolico paesaggio, giungemmo all'Osservatorio, ossia al quartiere dei domatori della ignivoma belva. Il Palmieri e Don Diego, dopo avere annunziato all'Europa che quella notte 27 maggio 1877 il vulcano dava segni d'insolita vivacità, dormivano. Nondimeno trovandomi all'ombra di quell'edifizio mi sentii sicuro, perchè il sismografo vegliava. Il pensare che anche scoppiando la montagna e scagliando nel sottoposto golfo l'Osservatorio, il Palmieri, Don Diego e la mia comitiva, quello strumento, subito dopo, ci avrebbe annunziata la catastrofe, mi dava tanta tranquillità che ripreso il mio buon umore cominciai a pensare a cose allegre, e mi tornò in mente un fattarello che volli raccontare agli amici, accaduto nella Maremma toscana e precisamente l'anno 1844. Una famiglia di contadini dormiva, una notte, tranquillamente sotto il suo povero tetto, quando il capoccia fu destato dall'insolito schiamazzìo che facevano le galline in pollajo. Dètte una gomitata alla massaja che gli russava accanto e.... — Senti nulla? — O la volpe o i ladri fanno man bassa su le nostre galline. — Saltarono il letto senza accendere il lume; dettero l'allarme al resto della famiglia, e qualche minuto dopo, tutti armati di schioppi, di frullane e di roncole correvano verso il pollajo un trenta passi discosto dalla loro abitazione. Non erano anche arrivati a mezza strada, che una terribile scossa di terremoto avea trasformato la casa in un monte di macerie. I polli avevano presentito il fenomeno, e dandone coi loro schiamazzi l'avviso avevano salvato un'intera famiglia da morte sicura. Il fatto è vero; ora fateci sopra quelle riflessioni che crederete migliori. I miei compagni impressionati dal racconto si lasciarono andare a così strane argomentazioni, che ne restai dolorosamente maravigliato. Si giunse perfino a sostenere che un pollo valeva un sismografo, anzi vi fu uno tanto esaltato, il quale pretese dimostrare che in certi casi un pollo morto vale un sismografo vivo. Qui feci le mie osservazioni alquanto indispettito e mi riuscì deviare la conversazione, perchè son troppo nemico di mandare in burla le cose, non solamente quando sono, ma anche quando pajono serie. Al nostro giungere al piccolo casolare che precede di pochi passi l'edifizio dell'Osservatorio, alcune guide che dormivano all'aria aperta intorno ad una fiammata di sterpi, destate dai latrati d'un cane che annunziò il nostro arrivo, ci salutarono invitandoci a prender posto intorno al fuoco. Accettammo con piacere, poichè la sizza notturna a quell'altezza era piuttosto pungente. Ivi prendemmo qualche ristoro; scegliemmo fra loro un robusto giovinotto per dirigerci nell'ascensione e poco dopo, fumando saporitamente i nostri sigari, ci rimettemmo in cammino. Percorso un mezzo chilometro circa di un sentiero abbastanza facile e pianeggiante, cominciò il faticoso cammino attraverso alle lave. La guida avanti e noi in fila dietro a lui, dopo un'ora di faticosissimo cammino fra grossi detriti di lava scabrosa e tagliente, traballando ad ogni passo e scorticandoci i piedi e le mani ogni volta che eravamo costretti a valerci anche di quelle per ritrovare l'equilibrio, giungemmo finalmente alla base del cono. L'aspetto orridamente pittoresco del paesaggio che ci contornava allora, era superiore alle immagini della più ardita fantasia. Nessuna traccia di vegetazione sotto i nostri passi; da un lato il ripidissimo cono, in cima al quale una enorme nuvola (che tale pareva da vicino il pennacchio) tinta dalla luna ai suoi ciuffi estremi in un bianco perlaceo, bruna nella parte centrale che rimaneva ombreggiata dalla chioma, e rossa sanguigna alla base, rifletteva in larghi palpiti il lavorìo che si compieva nella immane fucina, dalla quale vorticosamente sbucava. Dall'altro lato le groppe dei colli di lava tinte di un nero metallico, che frastagliate e seghettate acutamente sembravano, attraverso all'azzurro del mare, schiene di enormi ittiosauri, che si affollassero verso di quello per andarvisi a tuffare. Noi eravamo entrati sotto l'ombra del pennacchio e dall'oscurità, nella quale eravamo, ogni tinta assumeva per i nostri occhi il suo più forte valore. Il verde delle campagne lontane; la massa biancastra della città addormentata in mezzo a migliaja di fiammelle; la luna che nascosta ai nostri sguardi ci si mostrava coi suoi riflessi d'argento nello specchio della marina; le isole del golfo illuminate e visibili come in pieno meriggio, e dietro a quelle lo sterminato piano del mare luccicante pei riflessi di una miriade di stelle come un altro firmamento disteso ai nostri piedi, formavano un tale insieme di contrasti e di armonie, offrivano tali bruschi passaggi dal chiaro più luminoso allo scuro più forte, e tali lievissime sfumature sotto un cielo di una trasparenza cristallina, che io credo insufficiente qualunque mezzo umano a darne anche una pallida idea. Il silenzio che ci contornava era spaventoso, e in mezzo a questo silenzio il vulcano mandava a larghi intervalli i suoi rantoli profondi. In quel punto la nostra guida c'indicò un ammasso di lava, sotto al quale, cinque anni or sono, trovarono la morte due giovani coppie: una di sposi novelli, l'altra di promessi sposi. Questi infelici spensierati, partiti allegramente dall'Osservatorio, s'erano inoltrati fino a quel punto per osservare più da vicino il torrente di lava che correva a destra di chi guarda il cono dal colle di San Salvatore, quando investiti da un getto di gas deleterj caddero asfittici e i loro cadaveri rimasero miserando spettacolo alla infernale solitudine, finchè un torrente di fuoco non gli ebbe travolti nelle sue onde divoratrici. Una lapide di marmo posta sopra un muro presso l'Osservatorio rammenta insieme con quelli di altre vittime i nomi di questi infelici, empiendo l'animo dello stanco viaggiatore di profonda ed ineffabile malinconìa. Principiammo la salita del cono. Se Ercole avesse intrapreso quell'ascensione, io non dubito punto che l'avrebbe registrata fra le altre sue fatiche. Il declivio è ripidissimo ed il terreno che si calpesta è formato da minutissimi frammenti di lava scabrosi e vetrificati, dove la gamba affonda fino al ginocchio, tantochè dopo aver fatto dieci passi, con fatica inaudita, la via percorsa è appena di un metro. Nonostante si va, si rampica e ci sentiamo tornare nelle membra un vigore, nel quale non avremmo osato sperare pochi minuti avanti, tanta è la febbre dell'entusiasmo e della curiosità che s'impossessa di noi quanto più andiamo accostandoci alla cima paurosa. Uno de' nostri compagni, un poco indisposto di salute, che fino allora aveva potuto farsi superiore alla fatica con la sua forte volontà, fu vinto da quest'ultima prova e chiese che lo lasciassimo riposare, pregandoci di proseguire, chè ci avrebbe raggiunti più tardi. Noi non lo volemmo subito lasciare ed aspettammo che alquanto rinfrancato riprendesse il cammino. Dopo qualche momento si rialzò, riprese la via, ma ricadde di nuovo a sedere, insistendo perchè si andasse avanti senza pensare a lui. Cedemmo alle sue preghiere, ma rimasero presso di lui due compagni e la guida che aveva addosso alcune provvigioni da bocca, perchè all'occorrenza avesse potuto ristorarsi. L'andare senza guida incontro ad un ignoto di quella natura; sopra un terreno che cominciava a scottare i piedi, ed in mezzo a fumaroli che ci soffiavano intorno da ogni parte, era cosa che cominciava a darmi sgomento, onde rimasi per qualche minuto indeciso se avessi dovuto attendere o seguire il più robusto dei nostri compagni che vedevo già lontano e quasi arrivato alla cima del monte. — Quando egli si accorse della mia oscitanza e capì quale poteva, molto probabilmente, esserne la cagione, cominciò a gridare, animandomi, che non v'era alcun pericolo; che troppe volte aveva fatta quella ascensione e che era pratico più della guida. Io gli risposi che non dubitavo punto di quanto mi diceva, ma che non avrei proseguito in nessun modo senza la compagnia della guida e mi fermai. Il pennacchio che sbattuto dalla prima brezza dell'alba cominciava a sparpagliarsi su i fianchi del monte, più che qualunque altra cosa, mi dava sospetto. — Potremo respirare avviluppati in quella cappa di vapori sulfurei? — badavo a domandarmi. — Siamo veramente sicuri che quel vapore, jeri innocuo, non abbia cambiato oggi le sue proprietà? — In pochi discorsi mi trovai preso dal timor pánico ed ebbi un momento assai triste, quando, rinforzato un po' il vento, vidi piegare rapidamente la enorme massa della chioma, scaricarsi sul fianco della montagna e corrermi incontro, rotolando vorticosamente giù per la nuda e ripidissima china. Ebbi paura, sì, ebbi paura, nè me ne sento umiliato! Davanti alle grandi convulsioni della natura, dove mezzi di difesa non esistono, la parola _coraggio_ è una parola che non arrivo a comprendere altro che in bocca dei vanagloriosi e degli sciocchi. In pochi istanti mi vi trovai avviluppato interamente; gli occhi mi cominciarono a lacrimare; qualche starnuto, qualche colpo di tosse...; ah! ma si respira! Cambiò subito scena nel disordine momentaneo delle mie idee. Cominciai a gridare, a cantare ed a chiamare gli amici che non vedeva più attraverso alla grossa caligine. Mi fu risposto di sopra: — Corri, è meraviglioso! — e dal basso: — Eccoci, ci siamo anche noi — e in quattro slanci giunsi alla cima, dove poco dopo ci trovammo tutti riuniti. — Il nostro entusiasmo diventò allora frenesìa. Parole concitate, grida di maraviglia, strette di mano, bicchieri all'aria e un correre di sotto e di sopra in mezzo ai richiami della guida che ci gridava continuamente: — Costà no.... tornino indietro.... non si azzardino tanto da cotesta parte.... — Dio, Dio! che soddisfazione, che maraviglioso spettacolo era quello! — Gridai salute ai miei parenti, a' miei amici, anche ai miei nemici, perchè in quelle condizioni d'animo non mi pareva d'averne, e avrei voluto tutti con me a partecipare delle piacevoli, ma troppo violente impressioni di quel momento, ed a lasciarsi stringere ed abbracciare, perchè avrei stretto ed abbracciato anche Lucifero stesso, se fosse apparso a deriderci avviluppato nel suo mantello di fiamme. Il fumo rabbuffato e sbatacchiato dal vento al di sopra dell'enorme crepaccio era foltissimo al di dentro; onde di tutto il lavorìo che si faceva nel fondo altro non potevamo scorgere che un incessante bagliore e udire una romba ottusa a quando a quando interrotta da sordi ruggiti e urli rauchi ed altri rumori così potenti e così strani, da non trovare raffronto altro che pallidissimo in quelli d'un furioso uragano. Immaginate lo strepito d'un enorme getto d'acqua che ricade sopra un piano incandescente; una raffica di vento temporalesco che striscia attraverso ad una selva di abeti; la romba di scariche elettriche sotterranee; colpi tirati con maglio poderoso in una gigantesca lamina di rame.... ingrandite tutte queste immagini per quanto è capace la vostra fantasia, ed avrete qualche cosa che somiglierà al vero della gola satanica che vomitava urli e fiamme in fondo alla orrenda voragine. Non potendo appagare interamente la nostra febbrile curiosità, fummo presi dal fascino e sentimmo irresistibile il desiderio di calare in quell'abisso. La guida ricusò decisamente di accompagnarci. — Andremo senza di te; insegnaci la via. — Non ve la insegno. — La troveremo da noi. — Aspettate almeno il giorno. — Subito. — Ebbene, se volete calare, io vi conduco, ma non più di due per volta e su la vostra responsabilità. — O tutti, o punti. — Non vi conduco. — Persistendo nel nostro proponimento e buttandogli in gola un altro bicchiere di Lacrimacristi, finalmente si dichiarò vinto con queste parole. — Ebbene, signori, volete andare da vero? andiamo. — Come arrivammo in fondo non lo so; so che scottandoci i piedi e le mani, che trovandoci ora sospesi ai fianchi tormentati d'una rupe che sporgeva instabile sull'abisso, ed ora vedendo una rupe sospesa sopra di noi, mezzi accecati da soffioni di vapori aciduli in ebullizione, arruffati e sudanti, giungemmo ad una larga piattaforma posta circa alla metà del profondo imbuto fra l'orlo del cratere e l'infernale crogiuolo che vedevamo gorgogliare a pochi metri sotto di noi e lì ci fermammo, perchè era assolutamente impossibile andare più innanzi. Quale scena sublime! mille occhi non ci sarebbero bastati per afferrarne con uno sguardo tutta la tetra bellezza. Mi sentivo tanto piccolo, che avrei giurato non essere il mio corpo più grosso di un grano di arena. I miei compagni poi non mi parevano più loro, ma ombre fantastiche attraverso a un sogno di febbre. Pensai a Dante, a Shakespeare, a tutti i grandi della terra, e tutti mi passarono attraverso al pensiero come pimmei, tanto era gigantesco l'orrendo spettacolo della orribile bolgia, entro alla quale ci eravamo cupidamente avventurati. Allora non più paure, non più dubbj di pericolo; la vertigine ci aveva presi, eravamo ubriachi di ruggiti e di fuoco, e se un getto di lava ci avesse ricoperti, saremmo caduti gridando di gioja come il pazzo che vede bruciarsi addosso la veste; i nostri corpi avevano perduto il sentimento della loro individualità, e ci sentivamo nulla più che invisibili atomi confusi e dispersi nel turbine della tempesta. Le pareti della mostruosa caverna, incrostate su tutta la loro scabra superficie di cristallizzazioni di zolfo, ed illuminate ora dai bagliori del fuoco, ora dalla luna che filtrava attraverso alla densa nuvola di fumo, riflettevano umide e luccicanti tutti i colori dell'iride. Lassù in alto una rupe gialla stava sospesa sopra un ammasso di lapilli di un turchino carico; accanto, una muraglia a picco tutta screpolata e fumante da larghe fenditure orlate da cristallizzazioni di altri colori vivacissimi andava a nascondere la sua base nel fondo del baratro. Su la nostra sinistra l'immensa breccia, dalla quale traboccarono le lave del 72, e di fronte l'altra apertura, dalla quale la nera e irsuta cresta del Somma, la montagna, su la quale Spartaco alzò il grido dei ribelli, si vedeva attraverso alla nebbia di centinaja di fumaroli che in linee parallele mandavano piccoli getti di vapore grigiastro che si svolgevano all'aria come tante code di cavallo fitte nel terreno ed agitate dal vento, e sul fondo di questo maraviglioso scenario passavano velocemente e si rincorrevano e si azzuffavano per l'aria, inerpicandosi o strisciando rapide sulle pareti del precipizio, frotte di demoni alati, che altro non sembravano ai nostri sensi instupiditi le ombre portate dai nembi di fumo che sbucavano vorticosamente dal fondo. E intanto noi, mentre in mezzo a quella scena orridamente selvaggia, il Globo faceva intendere la sua voce potente, che facevamo? Rannicchiati sopra una rupe che si spenzolava nel vuoto, si ascoltava e si guardava in silenzio. La bocca d'eruzione che vedevamo pochi metri al di sotto di noi, era il punto più spaventoso. Dai formidabili ruggiti che si levavano dal fondo pareva che un branco di leoni spirassero urlando tra le fiamme di una mostruosa fornace. — Il fluido che si agitava nel gorgo, abbassando e rialzando a brevi intervalli la sua massa vorticosa, gorgogliava e brontolava cupamente, finchè gonfiandosi nel centro si sollevava a poco a poco rompendo in grosse bolle alla superficie e lanciando da ultimo in aria, con una esplosione violenta, vortici di fumo infuocato e lava in forma di lacerti sanguinanti, che giungendo quasi alla nostra altezza ricadevano parte sempre liquidi e parte raffreddati, o nel crogiuolo o al di fuori, con lo strepito sinistro di una pioggia di pietre. Gl'intervalli fra un boato e l'altro, in alcuni momenti erano brevissimi, per modo che spesso un getto che ricadeva ne incontrava un altro che saliva, urtandosi e spezzandosi in faville, e ad ognuno di questi boati corrispondeva un bagliore come di scarica elettrica che andava a riflettersi brillando sul pennacchio e ad infuocarne la base. Non so quanto tempo ci trattenessimo laggiù; ma so che mai non ce ne saremmo staccati, malgrado dei ripetuti inviti della guida, se non ci fossimo accorti che il sole incominciava già ad indorare la cima del cono. La sola idea di non perdere il panorama del golfo al sorgere del sole poteva rompere l'incantesimo che ci teneva incatenati là in fondo. Dopo un quarto d'ora di faticosa ascensione, uscimmo dal cratere.... Dio, Dio! è troppo! sono impazzato? son vittima fortunata d'un incantesimo? Che sublimità di spettacolo era quella! Credei d'aver fumato l'oppio, d'aver bevuta l'_Haschisch_.... io non so che cosa credei, ma in verità, con la mente già ubriacata dallo spettacolo di poc'anzi, ebbi un momento, nel quale mi parve d'essere impazzato davvero. Badavo a tastarmi le membra, a passarmi le mani su gli occhi e su la fronte, nè potevo persuadermi che quello che mi stava dinanzi era opera della natura. Pareva il lavoro delicato d'una Fata gentile; veniva voglia di temere che l'aleggio d'un insetto lo potesse disfare e si tratteneva il respiro, quasi temendo che anche l'alito più lieve potesse turbare quel diafano incanto. Non credo a spettacolo più sublime. Quando dalla cima di un vulcano che freme, gettando la sua ombra sul mare, i nostri occhi hanno dinanzi il sole che sorge fra le criniere nevose degli Appennini; la baja di Castellammare, tutta la riviera di Sorrento fino al capo Campanella; e Capri e Ischia e Procida coi loro picchi tinti di rosa dalla prima luce del giorno; e la pianura e Napoli tuffata nelle onde, che stende al mare, come una Ninfa innamorata, le sue bianche braccia da Posilippo a Resìna, la fantasia si smarrisce, l'animo si riempie di tanta malinconìa, le forze nervose cadono in tale abbattimento, che di tanta folla di sensazioni altro ricordo non resta che confusione e dolcissima tristezza. Il popolo solo ha scolpito le bellezze di questa sua Italia fatata, nella malinconìa de' suoi canti. L'aspetto del panorama si cambiava intanto rapidamente. La luce del giorno, dalla cima delle montagne scendeva rapida giù pei loro fianchi violetti; i vapori lievissimi della pianura sparivano; la vita si ridestava sulla terra e sul mare con migliaja di torrette che fumicavano e di barche che si staccavano spumeggiando dalle coste, e pochi momenti dopo anche la immensa città, simile ad un banco di lava biancastra solcato da profondi crepacci, brillò sommersa in un oceano di luce. — Ah! godi, godi, Napoli mia, perchè davvero è grande la tua bellezza. Quante volte scorrendo la tua storia sanguinosa ho imprecato alle avide ombre di Corradino e di Murat, ma ora dall'alto di questa torrida roccia le scuso e le compiango. Godi, godi nel tuo letto di alghe e di fuoco, o bellissima Salamandra. Cuma, Baja e Miseno caddero tra i boati della Zolfatara e le scosse del formidabile Tifèo, ma erano meno belle di te. Morì, è vero, la rosea Pompei e la bruna Ercolano sotto la furia del tuo Vesuvio, ma il tuo Vesuvio ti guarda e sospira; anche lui deve amarti, sei troppo bella. — Era tempo di discendere. Rotolandoci su i lapilli, in pochi minuti calammo all'Atrio del Cavallo; di lì, attraversando le lave che alla luce del giorno parvero meno micidiali alle nostre povere membra, giungemmo presto all'Osservatorio. Una breve fermata, un sorso di vino e di nuovo in viaggio, ma questa volta per la sospirata via rotabile. Poco sotto alla casetta dell'eremita incontrammo una comitiva di signori in un ricco _landau_ tirato da quattro cavalli. Ci guardarono ridendo, forse dei nostri aspetti rabbuffati, e, mi parve, con una certa aria di commiserazione. Guardai loro e ridendo io pure sotto i baffi. — Ah! no, signori miei, avete torto, — dissi fra me: — quando c'incamminiamo al Vesuvio strascicati da quattro cavalli, con le lenti affumicate, coi guanti _glacés_ e gli ombrellini da sole, non si dovrebbe ridere altro che passando davanti ad uno specchio. — LETTERA IX. Spigolature. Napoli, 30 maggio 1877. Ho finito d'annojarti. Una malaugurata matassa di combinazioni mi s'è intrigata fra le mani inaspettatamente, e stasera in qualunque modo debbo lasciar Napoli, e con Napoli tanti cari desiderj che forse resteranno insoddisfatti per tutta la vita. Sono di pessimo umore. Rivedrò la famiglia, rivedrò i vecchi amici e i miei luoghi, ma lascio Napoli! Chi non la conosce, amico mio, o quei diseredati che conoscendola non hanno gustato i vezzi di questa Circe, non possono intendere il core dell'amante ammaliato che, improvvisamente costretto, deve abbandonarla. Ed io mi cheto e guardando il mucchietto de' miei pochi bagagli lì in un canto che fra poco verranno con me a bordo del _San Piero_ della Compagnia Valery, e le bocche spalancate e vuote del cassettone che mi guarda come se volesse anche lui brontolarmi un addio, ti scrivo, per annunziarti la mia partenza, queste ultime righe, che precederanno di qualche giorno il mio arrivo costà, perchè ho intenzione d'andare fino a Genova e di rientrare nella nostra poetica Toscana dalla via dell'Appennino. Avrei molte altre cose da dirti di questo paese, ma ormai lo farò a voce; ed intanto ti faccio grazia d'una descrizione che doveva chiamarsi l'Imbrecciata, non disgustandoti così col racconto delle più oscene brutalità, nelle quali mi sia mai imbattuto passando in rivista le vergogne di Napoli, dell'Italia e del genere umano; risparmio la tua pazienza col racconto di altre gite che ho fatte a Pozzuoli, a Camaldoli, a Caserta ed in altri luoghi incantevoli, e ti lascio anche desiderare qualche parola che potevo averti scritta del _San Carlino_ e del suo Pulcinella, riserbandomi a farti sentire tutto il meglio che sia stato detto di questo arguto e povero filosofo, di questa sottile personificazione dell'indole napoletana, portandoti un opuscolo d'un certo Arcoleo che leggerai con grande compiacenza. Ti risparmio tante e tante altre cose, e ti stringo la mano e ti saluto. Sono già a bordo. Il battello che secondo l'orario doveva salpare alle quattro, partirà invece verso le sette a causa della enorme quantità di mercanzie che vi sono ancora da caricare. La stiva è già piena fino ai boccaporti, ed otto barconi stracarichi di botti e di balle son qui intorno per consegnarcele. Dove vorranno cacciare tutta questa roba e a che ora s'anderà via, non lo so, nè me ne dispiace. Riapro la lettera che consegnerò poi, perchè te la imposti, al nostro Enrico che è qui a bordo tutto addolorato per la mia partenza, e finchè vi sarà tempo te la infarcirò alla rinfusa del meno peggio che potrò raccapezzare fra gli appunti dell'inseparabile taccuino. U SOLECHIANIELLE. Un essere, per il quale le maraviglie del firmamento rientrano nella categoria delle cose superflue (fremi, ombra onorata di Galileo), è il povero _Solechianielle_, vulgo, Ciabattino ambulante. Tutto il suo armamentario è rinchiuso in una cesta di truciolo, che tiene dietro alle spalle, dentro alla quale si possono vedere: tacchi vecchi, tomai accartocciati, elastici sfilaccicati, tramezzi sfondati, bullette vecchie, spago vecchio, pece vecchia, aghi rotti, lesine spuntate, trincetti intaccati, martelli smanicati, ed altre molte cose tutte _otte_, _ecchie_ e _acce_, che formano il patrimonio o meglio la miseria mobile del povero ciabattino. Ha una ciabatta in mano e, come fanciulla Umilemente d'onestà vestuta, passa tra la folla con l'occhio abbassato pudicamente al suolo, nè si distrae, nè parla, nè grida, ma va e va e va, continuamente assorto in quelle che parrebbero sue meditazioni dolorose. La prima volta che dà nell'occhio uno di questi esseri, muove quasi a pietà, perchè vi desta subito nell'animo qualche dubbio doloroso. Spesso pare che corra affannato in cerca d'un oggetto smarrito e di grandissimo valore per lui, e qualche altra, sembra un'anima preoccupata che fugge davanti ad un rimorso che la perseguita, quando non v'immaginiate che cerchi la gemella smarrita della sua anima o di quella incompresa ciabatta che ha costantemente in mano. Ma alla pietà succede subito lo sdegno, se le vostre scarpe si fossero per caso magagnate a vostra insaputa, e peggio poi se avessero una di quelle screpolature che fino ad ora avete nascoste tanto gelosamente a furia d'inchiostro, e che non sono rimediabili altre che con la così detta sardina o con la famosa dentiera di spago.... Succede lo sdegno, dicevo, perchè a lui non sfuggirà di certo il guajo che affligge tanto molestamente le vostre basse estremità. Non un tacco dolcemente inclinato, non un sorriso lievissimo di tronchetto passerà inosservato alla sua vigile pupilla. Perfino le avarìe delle suola, quelle leggerissime avarìe sotto la pianta, che sono uno dei vostri più curati segreti, a lui non sfuggiranno, come se i vostri piedi si muovessero sopra ad uno specchio, ed inesorabilmente ve le accennerà stendendo il braccio e l'indice verso la parte vulnerata. Quando ha adocchiato la preda è implacabile. Egli conosce perfettamente i suoi polli; si mette dietro alla vittima continuando ad accennare straziantemente il membro ammalato, ed è capace di seguitarla per un chilometro intero, per due se occorre, finchè non l'abbia fatta sua. Questa volta ha chiappato un pretonzolo di campagna. Gli ha già levato la scarpa, vi ha già sostituito la misteriosa ciabatta, perchè il paziente non resti scalzo in mezzo alla via, e tutti e due seduti, questo sul marciapiede e quello su la sua cesta, incomincia l'opera riparatrice. Allora il ciabattino cambia affatto natura. Da taciturno che era diventa ilare ad un tratto; accende subito un mozzicone, attacca discorso con la vittima, e raccontando piacevoli storielle ride e fa ridere, e tutto distratto briosamente, mette pece dove dovrebbe andar cuojo, steccoli dove ha levato bullette e in quattro e quattrotto la scarpa rotta è diventata peggio di prima; il prete è contento come una pasqua e, uno per un verso, uno per l'altro, tutti e due si allontanano allegramente, sognando ognuno per conto proprio: mortorj, scarpe rotte e benefizj vacanti. IL MIRACOLO DI SAN GENNARO. Il famoso miracolo di San Gennaro si è ripetuto quest'anno otto volte, a benefizio dei pellegrini stranieri. L'occasione era bellissima, ed io non potevo perderla a costo di qualunque sacrifizio. Quando v'è un Santo che per amore del suo popolo è capace di mettere in bollore il proprio sangue per otto volte consecutive, senza perder la pazienza, bisogna dire che è un Santo sul serio, un Santo che merita tutti i riguardi possibili ed io volli salutarlo. La folla era compatta nella chiesa; intorno all'altare formicolavano un par di centinaja di pellegrini mascolini, femminili e neutri, che correvano, gridavano, smanacciavano, stabaccavano, ridevano, piangevano e masticavano pasticcini, preghiere e polpe d'arance. A me era riuscito d'intrudermi fra costoro, ma più prudente della cornacchia della favola seppi tanto bene portare la mia mascherata che nessuno s'accorse del finto pavone, imbrancatosi temerariamente con loro. In mezzo ad un silenzio solenne incomincia la commoventissima funzione. Il sacerdote di servizio, mentre presenta al popolo l'ampolla, simile ad un piccolo lampione da carrozza, la guarda, e incominciando subito a girarsela tra le mani, esclama con voce stentorea: — È duro! — A quel fatale annunzio il popolo dà in uno scoppio di strida così disperate, che ad un tratto pare d'esser cascati in uno scannatojo d'agnelli. I pellegrini si spaventano credendola una sommossa; alcune pellegrine minacciano uno svenimento, una accenna di cadermi fra le braccia, ma poi non vi cade ed io taccio, osservo e me la godo. Il Santo tarda a fare il miracolo; allora raddoppiano le strida e lacrime desolate si vedono scorrere in tal quantità su tutte le gote che ho dei momenti, nei quali corro serio pericolo d'intenerirmi. Vedevo intorno a me certe fisonomie e certe fronti, su le quali posava tanta pace soave e tanta serenità di fede, che in verità pareva mandassero raggi di luce; vedevo spargere lacrime tanto sincere e tanto spontanee, che io mi sarei positivamente commosso, se l'insieme della scena non avesse avuto assolutamente l'aria d'un baccanale dei più nauseanti. Delle famose imprecazioni al Santo, però, non ne ho sentite nemmeno una. Pianti, sospiri, caldissime raccomandazioni e niente di più. Da un branchetto di commarelle, che mi stavano alle spalle, uscivano continuamente queste preghiere: — Faccela, faccela, la grazia, San Gennarino mio bello. — E se il chierico accennava di no, ripigliavano: — È duro! Oh! quanto ci metti stamattina, San Gennarino mio benedetto. Ah! faccela, faccela, questa divina grazia; faccela, faccela, San Gennarino bello, bello, bello — ed altre esclamazioni consimili e tutte di sconforto, di pietà e di preghiera. I pellegrini cantavano, il popolo berciava nella cappella del miracolo, ed intanto nella navata massima un rimbombante predicatore strapazzava la memoria del Santo, ossia ne raccontava la vita, commentandola. E questo rumore grandissimo aveva i suoi alti e bassi, ogni volta che il cherico accennava lontana la consumazione dell'incanto o dava speranze di prossimo bollore. Dopo 29 minuti finalmente vedemmo il sacerdote, il cherico e gli spettatori più vicini a loro, ficcare attentissimi gli occhi all'ampolla, e far de' moti con le braccia tese verso la turba ululante, come per dire: — Forse.... un altro momento.... ci pare.... chi sa...? — Vi fu allora un istante d'ansia generale ed un breve intervallo di silenzio rotto qua e là da sospiri e da singhiozzi mal soffocati. I cenni seguitarono per qualche secondo, facce lagrimose e mani tremolanti si agitavano sulla folla genuflessa, quando ad un tratto alzaron tutti le braccia all'aria, serrando le palme; il cherico sventolò, in segno di gioja, un panno bianco, e come scoppio d'uragano, gli organi dettero nelle loro armonie a pieni mantici, le campane suonarono a distesa, e le vôlte del tempio, investite da una nuvola d'incensi, risposero rombando all'urlo poderoso delle turbe che intuonarono l'Inno Ambrosiano. Il miracolo era fatto; il sangue bolliva; Napoli era salva! Io potei accertarmene coi miei occhi, e non restandomi allora più alcun dubbio su la verità del pauroso mistero, uscii rattristato di là dentro per ossigenarmi all'aria aperta i polmoni e le idee. Ripensando nei giorni seguenti alla scena selvaggia, della quale ero stato spettatore, non me ne maravigliai più tanto, dopo che dalla osservazione di tanti altri pregiudizj che allignano fra questa gente, ebbi capito meglio l'animo dei fanatici che vi operavano. Fino dai primi giorni che ero in Napoli mi avevano dato nell'occhio alcune persone che vestivano abiti tutti d'un colore, dalle scarpe al cappello: qualcuno tutto verde, qualche altro tutto rosso, altri tutti gialli, ed altri di molti altri colori, che io badava a guardare in viso per vedere se mi riusciva persuadermi che non erano pazzi. Finalmente, non essendo riuscito a raccapezzarmi, ne domandai e seppi che erano devoti, i quali avendo attraversata qualche grave malattia, avevan fatto promessa ai loro santi di vestirsi a quella maniera per un certo dato tempo, ed ora, guariti, scioglievano il voto. Ho incontrato spesso alcune madri, portanti in collo monachine e fratini cuccioli d'un anno o due, ed ho saputo che anche la causa di queste innocenti mascherate è la medesima. Non mi ricordo se i pagani avessero qualche cosa di simile, ma è probabile di no, perchè erano tanto meno inciviliti, e più poeti di noi. Per mezzo dello stesso filo d'Arianna sono arrivato anche a spogliarmi della pietà che mi destava la vista di alcune monache occupate nelle botteghe e nelle vie in opere servili, in mezzo ad altre operaje, alla cui vista quasi ho imprecato alla così detta soppressione dei conventi, finchè le ho credute vittime di quella legge; ma avendo trovata la ragione di tali goffe consuetudini, sono giunto poi a ridere amaramente anche del ribrezzo che m'avevan fatto alcuni fraticelli bigi dalla ghigna sinistra, che agitati da Mercurio spesso mi hanno susurrato all'orecchio pitture enfatiche di brune e di fulve Citère Trivie e Cloacine, e patetici inviti con tale untuosa insistenza, che non cedeva altro che dinanzi alla perentoria minaccia d'una larga pedata nelle pieghe deretane della tonaca bigia. Nè mancano fra loro alcuni ingegnosi scrocconi che, approfittando della semplicità fanatica dei più gonzi di loro, la sfruttano impunemente a loro vantaggio, in un modo che sembra innocente, ma che, se è meno cinico, non è meno vigliacco e disonesto. Per le vie dei quartieri poveri non è raro inciampare ad ogni piè sospinto in una seggiola posta sul marciapiede o su la soglia d'una bottega, su la quale è un aborto di gesso che rappresenta San Gennaro, due moccoli accesi ai lati della superba immagine ed in mezzo un mucchio di soldi non sempre vecchio nè piccolo. Che cos'è tutto quell'amminnicolo? È un paretajo, nulla più e nulla meno che un paretajo. Il Santo fa da richiamo, i gonzi che vi calano lasciando l'elemosina, da tordi, e da capanno la bettola vicina, dove il tenditore mangia e beve allegramente alla barba dei citrulli, senza altra pena che d'andare di quando in quando a rivedere la tesa, la quale raramente è sprovvista di selvaggina. Ma quando, tacendo di tante altre, ti avrò detto che soltanto da dieci anni si è cessato di portarsi in occasione d'una certa festa che non ricordo, con apparato solenne e concorso dei Reali di Borbone, d'autorità civili e militari, deputazioni, rappresentanze, ec., ec., nella chiesa del Carmine per tagliare i capelli ad un Crocifisso, e che questi capelli ricrescevano poi a poco a poco nel corso dell'anno, perchè ritornassero in taglio l'anno seguente, capirai con facilità che non è po' poi tutta colpa di questi disgraziati la loro bestiale ignoranza, nè tutta nostra modestia quel sentimento che ci spinge a cantare all'Europa in tutti i toni che siamo tanto avanzati nelle vie dell'incivilimento. Grazie a Dio, da qualche tempo si va di carriera, anzi si vola; ma avanti d'essere arrivati in fondo, almeno quaggiù, c'è che ire. I RINALDI. Percorrendo una mattina la via della Lanterna mi dettero nell'occhio due folti gruppi di persone, in mezzo ad ognuno dei quali vedevasi un uomo agitarsi e declamare con un libro in mano. Erano due Rinaldi, cioè due del popolo che all'aria aperta sul lastrico della via declamano e commentano alla turba estatica i poemi eroici della _Gerusalemme_, del _Guerrin Meschino_ e dei _Reali di Francia_. Mi accostai al primo di questi e l'osservai. È un uomo che ha varcato la cinquantina, robusto di forme, acceso di volto, dalla voce _avvinata_ e dall'eloquio largo e maestoso. Non ha giacchetta, ha rimboccate le maniche della camicia, il capo scoperto, e siede sopra una seggiola impagliata in fondo al circolo degli uditori, ove impostandosi a Giove Tonante, sorride olimpicamente, e girando intorno l'injettato occhio porcino, pare che dica a sè ed agli altri: — Come son bello! — L'anfiteatro, dentro al quale egli declama, è formato di carne umana. La prima linea, che rappresenterebbe la massa delle gradinate, è fatta di piedi e di ginocchi di ragazzi, che seggono in terra; dietro a loro viene subito l'ordine nobile, ossia una panca in giro, su la quale, pagando un soldo, seggono i Cresi del Porto e i protettori delle lettere, col diritto di grattarsi finchè rimanga loro cotenna sotto i capelli, e dietro a questi sta in piedi la folla dei diseredati, incominciando dai più bassi di statura, e su su fino ai cappelli bisunti dei più lunghi che ammirano estatici sbadigliando in silenzio. Per passar meno peggio il tempo d'aspetto tutti hanno trovato una occupazione. Gli ultimi, quelli in piedi, masticano saporitamente la cicca acquistata poco fa dal vicino negoziante all'ingrosso; i Cresi sbuccian semi di zucca o succiano arance; i ragazzi mastican le buccia e si pizzicottano fra loro; tutti si grattano. A proposito di questo grattarsi, perchè non sembri che io esageri, non mi pare inutile rammentare qui la sentenza di quel gran filosofo, il quale disse che se la plebe di Napoli fosse di cacio, tempo ventiquattro ore non ci resterebbero che l'unghie. È azzardata, ma potrebbe esser vera. In mezzo al circo sta il venditore d'arance e di semìne con le sue paniere alla mostra, il quale è anche incaricato del buon ordine. Con una mano dispensa i generi venduti, con l'altra riscuote le somme; con l'altra dispensa scapaccioni ai monelli più sguaiati, mettendo alla _porta_ i recidivi, e con quell'altra si gratta quando non ha altro da fare. Le due mani di più che ho rammentate, appartenevano al suo ajutante di campo. Il nume intanto s'è preparato a dare l'oracolo, ha squadrato per la decima volta il brillante uditorio, e dopo avere accennato con la mano di non poter più reggere il _verbo_, che è vicino a traboccargli dalle labbra, tutto agitato incomincia: _Canto_ d'Erminia _che_ infra le _sue_ ombrose _biande_.... Misericordia! Mi basta, me n'avanza. Via, via subito da quell'altro, ma spicciamoci, per l'amor di Dio, chè se m'arriva con un altro di quegli _endecasillabi_, son morto! Il Rinaldo che declama proprio sotto la torre del Fanale, è un altro tipo; è meno maestoso, ma i suoi tratti sono tanto onesti e delicati, che se non lo denotano una persona culta, ci manca poco. Quella giacchetta che il Rinaldo volgare di poco fa sdegna indossare, egli la tiene decentemente sotto il braccio; ha un libro manoscritto nella sinistra e nella destra una bacchetta sbucciata a spirale. I suoi occhi, se non sembrassero due giuramenti falsi, potrebbero parere benissimo due ecclissi totali di luna, perchè, quando declama, spesso ripone addirittura le pupille dentro la palpebra superiore, dove a volte le tiene qualche secondo, imitando maravigliosamente lo sguardo del dentice lesso. Deve sentir tanto quell'uomo! Sputa continuamente, cambia alternativamente il posto alla mazza, al libro e alla giacchetta; fa due passi avanti a sinistra, due indietro a destra; guarda la terra, eppoi il cielo, e quand'ha guardato il cielo, riguarda la terra e rimuta il posto alla mazza, al libro e alla giacchetta, e risputa con tanta simmetria e con un tal metodo, che in verità stupisce il vedere come in mezzo a tanta complicanza di faccende non s'imbrogli mai. La statura sua è piuttosto bassa; ha il torace peloso, le braccia pelose, il berretto di pelo e la barba a corona. Non si può dire veramente un bell'uomo, ma senza dubbio è qualche cosa fra il sagrestano smesso e il gorilla addomesticato. Incomincia a declamare; ascoltiamo. Anche a lui gli endecasillabi pajono corti, onde, animato anche dalle licenze poetiche che vede prendere agli autori dei testi, su i quali si appoggia, ha preso addirittura il _patentino_ per poter declamare anche in tempo di divieto, e aggiunge, e allunga, e accomoda di suo, in un modo così sublime, che il Tasso nelle sue mani diventa tutt'un'altra cosa, un po' più oscuro è vero, ma con le sue illustrazioni in lingua Greco-Arabo-Italo-Cofta rimedia a tutto e così bene, che anche gli addormentati, quando si svegliano, ne sanno quanto quelli che sono stati desti o poco più. Chetiamoci e stiamo attenti sul serio, perchè ora è il vero momento; il nume s'è impossessato di lui, lui s'è impossessato del senso comune e se le dànno a morte. Ma nol farà: prevenirò quest'empj Disegni loro, e sfogherommi appieno; Gli ucciderò, faronne acerbi scempj: Svenerò i figli alle lor madri in seno; Arderò i loro alberghi e insieme i tempj: Questi i debiti roghi ai morti fièno; E su quel lor Sepolcro in mezzo ai voti Vittime pria farò de' sacerdoti. Così, per bocca del buon Tasso, ragiona il rabbioso Aladino, e, per dire il vero, trovo che le sue idee (quelle d'Aladino) per gobbe son fatte bene; ma il mio Rinaldo, lui, quello che sputa, per non confonderlo con l'eroe omonimo del poema, lui, non ne conviene, ed ha ragione. Quella eccessiva chiarezza e più che altro quella eterna monotonia dell'endecasillabo è una cosa che ammazza. L'amico se n'è accorto e co' suoi commenti corregge, allunga, scorcia, taglia, stronca, sdruce, insomma accomoda e rimedia a tutto, con tanto garbo che è un amore. — Ma no, non lo farà (_se ne vene a di' chillo sfelenze i Saladine_), non lo farà: prevenirò me tutti chisti embj. E li disegni di loro, e sfogherommi, abbieno. (_Se vuleva sfogà a raggia ill'anema soja, stu cane!_) L'ucciderò tutti, faronne acerbi e scembj. (_Che puozze morì accise tu', nfamone!_) Svenerò li figli colle loro madri in seno. (_I vuleva scannà i vene! accussì avria succedere che creperebbe mammata, cane i sarracine rinnegate!_) Arderò tutti li loro alberghi e insieme li tembj. (_Pecchè nun ce restasse cchiù nè a magnà nè a durmì pi Cristiani, abbruciava i taverne, i lucanne, i lupanare e nsine a casa i nostro Signore. — A te, guaglio'! Uhe! t'aggio ritto; abbascia a scazzetta a u nomme du Signore, o te caccio l'anema.... Bravi, accussì! spaccatele a capa a chillo muccusiello i galera._) — (Qui è bene avvertire che l'ira del Rinaldo contro il _guaglione_ che non s'è levato di capo la _scazzetta_ al nome del Signore, è tre volte giustificata, perchè il rituale porta che tutto l'uditorio a quella parola si scopra, anche trattandosi del _Signore_ di Montalbano, al cui nome il Rinaldo è primo sempre a togliersi il berretto ed a fare una breve pausa ed un inchino in segno di reverenza.) — Ed io arderò li diebbiti in coppa alli roghi (_pe nun paga' a nisciuno, avite capito!_), e alli morti fieno (_le vuleva da' u fieno! tratta' i morte comme a' ciucce!_) E in quel loro sandissimo Sepolcro in miezzo alli voti, Vittime prima farò di tutti li sacerdoti. (_Doppe accise a tutti, vo' accidere primma li prievete! Che figli i 'nfame avevane a essere a gente a chilli tiembi. E chisto era lu Re! Figurammece chilli vajassune i suddete!_) — Così l'iniquo.... Oh! un'altra ottava, poi, no. Quando il pane della sapienza viene spezzato a tòcchi così grossi, uno solo basta, anzi qualche volta n'avanza per il giorno dopo. IL MARUZZARO. Il Maruzzaro o venditore di chiocciole, considerato dal punto di vista artistico, è una delle figure più originali dei miserabili di Napoli. Il Maruzzaro si può quasi dire che al pari della lucciola abbia due esistenze: una il giorno ed una la notte. Durante la giornata è un essere comune, un venditore di commestibili come tutti gli altri, che passa le sue ore lungo la marina e specialmente lungo la via che conduce alla Lanterna, seduto davanti alla sua pentola fumante, senza mandar grida speciali, senza darsi moto, senza far nulla insomma che lo distingua fra gli altri infiniti e rumorosi suoi colleghi. Affetta il pane, lo distende su piccole scodelle, ci versa sopra chiocciole e brodo col suo romajolo di latta; fornisce gli avventori, risciacqua i piatti, si soffia il naso con le dita modestissimamente e tace. Ma appena scende la notte, il Maruzzaro cambia affatto il suo aspetto, e da vero chirottero umano e ragionevole cambia le sue abitudini, veste le sue piume più belle, alza il suo canto e corre le vie della città. La sua figura, generalmente, è elegante come quella di tutti i discendenti dei vecchi Osci e Campani. Veste un pajo di calzoni rimboccati fin sopra al ginocchio, una camicia e niente altro. Di dove esca, di dove sbuchi, dove vada a compiere la sua metamorfosi, non lo so; ma il fatto si è che ai primi bagliori notturni del Vesuvio, quando i pipistrelli scaturiscono zirlando dalle gretole dei muri, comparisce il Maruzzaro a fare intendere alla notte la sua mesta cantilena. Ha una cesta di giunco in capo e su questa cesta sono disposte tre marmitte di rame lucide, terse e pulite, come è difficile veder altra cosa in Napoli. — Una marmitta nel centro; due laterali. Sotto quella del centro arde un fornello che fumica e scoppietta; nelle due laterali sta il pane affettato e non so quale altro ingrediente della sua ghiotta pietanza. La cesta poi è sormontata da un arco formato da un verga d'ottone lucidissima, alla quale sono attaccati e sospesi: catenelle, medaglie e immagini di santi, e quest'arco, alla sua volta, è sormontato da un lampione acceso, che scintillando ondeggia secondo le movenze della svelta figura che lo trasporta. La mano destra mantiene in equilibrio il luminoso trofeo, la sinistra sul fianco, e via in cerca di buongustaj dalla Lanterna a Sant'Elmo, da Mergellina alla Marinella, percorrendo in ogni verso dalla via Toledo ai vichi più remoti la immensa città. Sopra ogni quadrivio questa elegante figura, dai contorni arabo-greci, si ferma e canta lungamente annunziando ai ghiotti la sua merce. Ho fatta una osservazione che non è del tutto priva d'interesse. — Le voci dei venditori di Napoli messe insieme in mezzo al tumulto e mescolate al frastuono della folla concorrono a dare allegrezza e festività al rumore generale, senza che alcuno si accorga menomamente del loro accento di tristezza, ma udite separatamente sono meste e lamentose, come di persone che piangendo si dolgano senza speranza di conforto. Le prime mattine che passai in Napoli, trovandomi destato per tempissimo dalle grida dei venditori, mi scuotevo e stavo in pena ascoltando, come se temessi di una disgrazia accaduta; poi imparai, ma non sono stato mai capace di liberarmi da un senso di profonda mestizia, ogni volta che un ortolano mattiniero, fermando il suo somarello sotto la mia finestra, annunziava alle comari del vicinato che la sua insalata era freschissima e bella. Il Maruzzaro ha la più mesta di tutte le cantilene. Si ferma su i quadrivj; modula la sua voce, e girando lentamente in tondo sopra sè stesso, empie il silenzio relativo della notte col suo verso malinconico. Un poeta direbbe che sembra un cigno morente, che inganna col canto la sua ultima ora; io no: amo il pallido Maruzzaro ed il suo grido lamentoso, che nel tardi della notte mi racconta al core tante confuse leggende di sospiri e di lacrime. SUL MOLO. Di sul casseretto di poppa, dove sono a scriverti in furia queste ultime righe, osservo ed appunto. In cielo ed in mare è calma perfetta; in terra imperversa la tempesta umana. Fra centinaja di legni a vela, diciotto grossi piroscafi sono nel porto. Contemplando questi mostri natanti che uno dopo l'altro si avventeranno sull'Oceano a sventolare la bandiera italiana per tutti i mari della terra, a me, piccolo acaro del globo, par d'avere il globo tra le mani. Uno di questi ansa, fuma, fischia e sbuffa prima di slanciarsi nella sua rotta a Palermo, e pare come un formidabile cetaceo che tirato in terra dal rampone del baleniere sospiri smanioso alle profonde caverne del suo mare lontano. Quanto volentieri mi lascerei ingojare, Gionata redivivo, nel suo comodo ventre per salutare la dorata Palurmus, le silenziose tombe d'Agrigento e di Siracusa, e i tremuli papiri dell'Anapo! Ma altri forse più degni di me vi anderanno, ed io li guardo e li invidio. Gruppi di bersaglieri che salutano e abbracciano amici ed amorose piangenti, si affollano su la riva; bersaglieri stivati in barche vanno al piroscafo che li condurrà in Sicilia, e il ponte del bastimento formicola già di questi bruni folletti che gridano e cantano, e sventolando all'aria bianche pezzuole mandano alla spiaggia il loro saluto d'addio, mentre dalla spiaggia si risponde. Il vento agita le penne dei loro cappelli e il sole inebriato, pazzamente scintilla sul disordinato agitarsi di piume, di bajonette e di lacrime. In questo tempo un altro vapore arriva fischiando, ed una smotta di piccole barche gli si affollano incontro come gabbiani addosso a una balenottera morente. Il disordine intorno a lui si fa prodigioso: uomini e merci calano e cascano alla rinfusa; strilli umani e latrati di cani che abbajano dalla riva o affacciati all'opera morta dei bastimenti vicini, empiono l'aria d'un'armonìa diabolica; altre barche accorrono; altre vengono a riva; trilli e suono di campanelle annunziano i comandi per le manovre, ai quali rispondono le voci cadenzate dei marinari; bandiere che salgono e discendono cigolando riempiono l'aria, e le fiamme sottili schioccano al vento in cima ai pennoni. Tonfi di ancore buttate nell'acqua e d'ormeggi lanciati alla riva, cigolìo d'argani e di taglie, e suono di catene, e centinaja di altri rumori e tutti diversi e insieme confusi si partono intanto dalla piccola città galleggiante. — A terra il lavoro aumenta di proporzioni. Carri che partono e che arrivano; ammassi di balle, di casse, di carbone e d'infinite altre cose che in un momento si ammontano e si smonticano e spariscono; bòtti rotolate che scricchiolano su la breccia; cavalli che abbandonati un momento si son dati alla fuga fra le grida del popolo; altri impennati sotto un peso enorme fanno sforzi prodigiosi, animati dalle frustate e dagli urli de' carrettieri, e in mezzo a questa babele, sberci di chi chiama il compagno lontano, di chi impreca al santo Diavolo, di chi invoca la Madonna, di chi chiama San Gennaro in suo soccorso. E intanto col nuovo bastimento è arrivato un carico di cembali e di nacchere. Quattro barche stivate di questi strumenti e gremite di persone si son mosse e vengono alla riva suonando tutti e strillando come anime spiritate. Nel forte vicino molti gruppi di soldati incominciano a suonar trombe, ognuno per conto proprio, in modo che la presa di Gerico sarebbe sembrata uno scherzo a chi si fosse ritrovato in mezzo a questa nuova tregenda. E ancora non è finito. Il piroscafo per Palermo si è mosso con apparato maestoso di fumo, di suoni e di canti, e in questo momento un legno da guerra ha incominciato a tuonare in lontananza il suo saluto, al quale risponde subito la romba delle artiglierie dal porto militare.... Io non ne posso più; i miei nervi sono consumati. Guardo d'intorno, ed una folta caligine di polvere sollevata e di fumo pregno d'un odore acuto di catrame e di fossile ingombra l'aria giallastra attraversata da una luce calda e abbagliante. Mi sento stanchi gli occhi ed il cervello. Anche sul ponte del mio bastimento è lo stesso casa del diavolo. Sono moralmente spossato, ma non mi annojo. Penso al vuoto che avrò da riempire ne' miei sensi appena lasciata questa romantica ed impazzata regione, e intanto osservo, mi rattristo e godo. Attraverso ad una selva d'antenne scorgo il Vesuvio che insensibile al doloroso saluto dell'amico che parte, fuma e tace, ed io pure taccio, fumo e lo guardo, ed invidio due gabbiani che rotano altissimi e tranquilli su la marina di Portici.... — Addio, addio, diabolica e divina montagna; un adoratore del tuo fuoco ti saluta commosso; addio, addio! Domani all'apparire del giorno cercherò inutilmente nello spazio la tua cima fumante e mi domanderò con tristezza: rivedrò più il Vesuvio? — Addio, poetici colli del Vomero, di Pompei e di Sorrento. Addio, placide marine del golfo, che lontane tornerete assidue, come sogni tristissimi e soavi, alla memoria ed al core dell'amico lontano; addio, addio! — Il bastimento ha cominciato a fremere al gorgoglìo della caldaja che ribolle nel suo ventre; i segnali dell'imminente partenza sono dati e già è principiato lo sgombro di tutti coloro che son qui per affari o per addii, fra i quali il nostro Enrico che sarà l'ultimo ad allontanarsi. — Si parte! addio, mio buon amico, e addio, addio a te dal profondo del core, o Napoli maravigliosa, addio! Io non ti ho certo adulata come tutti gli altri tuoi amanti, ma tu non volermene male, perchè forse più di tutti gli altri ti amo. Addio, Napoli mia, e, se l'ira del tuo vulcano non ti tocchi in eterno, vogli compatire il piccolo figlio d'una delle tue cento fortunate sorelle, che limpida e sconfinata, come la serenità del tuo cielo, vorrebbe la purezza della tua grande anima di fuoco. — INDICE. Lettera I. Dove si parla della città Pag. 1 Lettera II. Dove si parla della popolazione 19 Lettera III. Dove si parla di Sorrento, d'Amalfi e di Pompei 41 Lettera IV. Dove si parla dei quartieri de' poveri 62 Lettera V. Dove si parla della festa di Montevergine 75 Lettera VI. Dove si parla del Camposanto vecchio 97 Lettera VII. Dove si parla d'una gita a Capri 106 Lettera VIII. Dove si parla di una gita notturna al Vesuvio 121 Lettera IX. Spigolature 139 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (edifizi/edifizj, frenesia/frenesìa e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. End of the Project Gutenberg EBook of Napoli a occhio nudo, by Renato Fucini *** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK NAPOLI A OCCHIO NUDO *** ***** This file should be named 43486-0.txt or 43486-0.zip ***** This and all associated files of various formats will be found in: http://www.gutenberg.org/4/3/4/8/43486/ Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) Updated editions will replace the previous one--the old editions will be renamed. Creating the works from public domain print editions means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg-tm's goals and ensuring that the Project Gutenberg-tm collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg-tm and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation's EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state's laws. The Foundation's principal office is located at 4557 Melan Dr. S. Fairbanks, AK, 99712., but its volunteers and employees are scattered throughout numerous locations. Its business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation's web site and official page at www.gutenberg.org/contact For additional contact information: Dr. Gregory B. Newby Chief Executive and Director gbnewby@pglaf.org Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide spread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. 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Hart was the originator of the Project Gutenberg-tm concept of a library of electronic works that could be freely shared with anyone. For forty years, he produced and distributed Project Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of volunteer support. Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed editions, all of which are confirmed as Public Domain in the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper edition. Most people start at our Web site which has the main PG search facility: www.gutenberg.org This Web site includes information about Project Gutenberg-tm, including how to make donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.